La follia nazista non interessò solo uomini ed ebrei, ma coinvolse anche donne e bambini, che in molti casi non vennero risparmiati dalla camera a gas.
Per quanto riguarda le prime, inoltre, talvolta il destino poteva non essere quello dei forni in uno dei campi di sterminio come Birkenau, ma un’esistenza passata nei bordelli allestiti negli stessi lager, alla pari delle comfort women che, in Oriente, venivano prese in ostaggio dall’esercito giapponese allo stesso scopo, o come vere e proprie cavie umane per i tanti esperimenti di eugenetica compiuti dagli scienziati al servizio del Reich.
Sarah Helm, una giornalista inglese, dopo una lunga ricerca, fatta di lavoro d’archivio e interviste con le sopravvissute, descrive esattamente la realtà di uno dei campi di concentramento esclusivamente femminili, voluto nientemeno che da Heinrich Himmler in persona, in un libro del 2015: Ravensbrück: Life and Death in Hitler’s Concentration Camp for Women.
Ravensbrück era infatti il nome del lager in cui, dal 1939 e fino alla fine della guerra, entrarono circa 130 mila donne, non solo ebree, ma anche lesbiche, prostitute, socialiste, comuniste, abortiste, rom, testimoni di Geova. Insomma, tutte coloro che, per ragioni diverse, erano ritenute pericolose o inaccettabili dalla società.
Alcune di loro portavano cognomi prestigiosi: come Geneviève de Gaulle, nipote del generale francese, oppure Gemma La Guardia Gluck, sorella dell’allora sindaco di New York, Fiorello. Ma il libro di Helm racconta soprattutto di donne “normali”, che l’autrice e è riuscita a rintracciare, come Sylvia Salvesen, norvegese, che arrivò a Ravensbrück nel 1943, o Elsa Krug, prostituta di Düsseldorf, che, in quanto kapò, aveva accesso ai magazzini alimentari, dai quali è riuscita a sottrarre cibo per le prigioniere, fino a che, dopo l’ennesima disobbedienza ai gerarchi nazisti, finì nella camera a gas.
In tutto, si stima che dalle 30 alle 90 mila donne trovarono la morte a Ravensbrück, nei modi che oggi purtroppo conosciamo tutti molto bene: per fame, malattie, per il lavoro insostenibile, per impiccagione e fucilazione, oppure nelle camere a gas, ma anche in seguito alle numerose torture cui erano sottoposte.
Perché a Ravensbrück non si lavorava soltanto: alcune delle donne detenute nel lager furono sottoposte a orribili esperimenti, in cui venivano spesso avvelenate di proposito, contaminate con batteri, utilizzate come Versuchkaninchen, ovvero “conigli da esperimento”.
In generale, la figura femminile durante il terribile periodo che portò al genocidio degli ebrei (e non solo) fu brutalizzata al pari degli uomini. Ecco cosa accadeva alle donne nei lager, raccontato nella nostra gallery.
Il campo di Ravensbrück
A volere il lager femminile fu proprio l’architetto dell’Olocausto, il Reichsführer delle SS Heinrich Himmler. A Ravensbrück entrarono più di 130.000 donne, provenienti da venti Paesi diversi: le prime 867 entrarono il 15 maggio del 1939, le altre negli anni fino alla fine della guerra. Solo il 20% circa di loro, stimano i dati, era ebrea, le altre erano lesbiche, prostitute, socialiste, comuniste, abortiste, rom, testimoni di Geova.
Himmler stesso stabilì che ogni giorno dovevano essere eliminate dalle 50 alle 100 prigioniere, tanto che, alla fine della guerra, si stima che dalle 30 alle 90 mila donne siano morte nel lager. Le esecuzioni erano effettuate in uno stretto passaggio tra due alti muri chiamato Corridoio della fucilazione, anche se, per accelerare il processo, fu costruita una camera a gas per eliminare più donne possibili.
Il piano di Himmler
Nel 1942 a Himmler venne in mente un modo che, secondo lui, avrebbe aumentato la produttività degli internati nei campi di concentramento: creare dei veri e propri bordelli al loro interno, chiamati Sonderbauten, ovvero edifici speciali, in cui erano radunate donne giovani, tutte sotto i 25 anni, provenienti da Germania, Polonia o Ucraina e reclutate tra le prigioniere ritenute “asociali” (soprattutto prostitute). Erano rigorosamente escluse le ragazze ebree, ma anche le italiane che, come le prime, non avevano i caratteri “ariani” e avrebbero potuto “contaminare” i loro clienti.
Come funzionavano i bordelli nei lager
I postriboli dei lager potevano essere utilizzati dal personale di guardia al campo, dagli internati criminali comuni (contraddistinti dal triangolo verde) e in generale dai prominenti di razza “ariana”, al prezzo di due Reichsmark. Da questo “bonus” erano esclusi gli ebrei e i prigionieri di guerra russi. Tuttavia, la gran parte dei clienti era rappresentata dai Funktionshäftlinge (i “detenuti-funzionari”), ovvero i prigionieri di fiducia, come i kapo, ai quali veniva affidata la sorveglianza degli altri internati e che erano gli unici a potersi permettere la spesa.
Per avere accesso al bordello i prigionieri dovevano presentare domanda, farsi inserire in una lista apposita, sottoporsi a una visita medica e infine attendere di essere convocati. Anche il rapporto sessuale stesso era rigidamente organizzato: 15 minuti, nella posizione del missionario, e sotto la stretta sorveglianza di una SS.
Questa era una delle norme inserite nel “Regolamento per la concessione di agevolazioni per i prigionieri” che, nel maggio 1943, fu introdotto in tutto il sistema dei campi di concentramento.
Le donne destinate a prostituirsi, classificate con l’etichetta di “antisociali”, avevano ritmi di lavoro più blandi rispetto alle altre internate, dato che alle 20, e fino alle 22, scattava l’orario della prostituzione, con un orario prolungato per la domenica pomeriggio. Le giovani in cambio della loro opera ricevevano razioni di cibo più sostanziose.
I casi di gravidanze furono pochi, e risolti sempre con l’aborto, dato che le donne venivano sterilizzate prima del loro ingresso al lager, o erano rese incapaci di avere figli dalle condizioni estreme in cui vivevano.
Quando erano malate o sfinite dalla frequenza delle prestazioni richieste venivano rispedite ai lager di origine, dove diventavano cavie degli esperimenti, o inviate alla camera a gas.
I trasporti neri
Chi non veniva trasformata in schiava sessuale poteva finire nel giro dei cosiddetti trasporti neri, ovvero le sperimentazioni mediche, con cui le vittime venivano deliberatamente ferite, fratturate, amputate e infettate con virus e batteri. A queste donne venivano spesso iniettati dei batteri, per testare l’efficacia di determinati farmaci. La Croce Rossa, a cui fu concesso nel 1943 di entrare nel lager, sapeva, ma non si riuscì a fermare l’orrore.
La sterilizzazione
Il Progetto Lebensborn voluto dai nazisti avrebbe dovuto, tramite “accoppiamenti controllati”, garantire la nascita di una stirpe di uomini corrispondenti ai canoni di appartenenza alla cosiddetta razza ariana; allo stesso tempo, con un programma di sterilizzazioni i nazisti avrebbero voluto sfruttare la capacità lavorativa delle vittime. Per questo, dopo la Legge sulla sterilizzazione del 14 luglio 1933, che portò alla sterilizzazione chirurgica di circa trecentocinquantamila cittadini tedeschi indegni di riprodursi ma rappresentò un’ingente spesa per il Reich, i gerarchi nazisti, sostenuti dai medici e dagli scienziati, cercarono alternative meno costose per la sterilizzazione di massa, che avrebbe dovuto interessare in primis ebrei, Rom-Sinti, prigionieri di guerra sovietici, asociali, disabili, afro-tedeschi, Testimoni di Geova, omosessuali.
Dopo l’idea di sottoporre inconsapevolmente ai raggi X le vittime, ad attuare la sterilizzazione non chirurgica voluta dai vertici nazisti fu il ginecologo Carl Clauberg, che era arrivato a una sterilizzazione dei ratti usando una soluzione al 5-10% di formalina che, provocando un’infiammazione alle tube di Falloppio, le chiudeva impedendo il concepimento.
Nel dicembre del 1942, Clauberg si trasferì inizialmente a Birkenau, nella Baracca 30, poi gli fu assegnata parte del famigerato Block 10 del campo di Auschwitz. Lì il ginecologo iniziò i suoi esperimenti sulle internate, cui veniva raccontato di sperimentare metodi per incrementare la fertilità, costrette ad accettare il ruolo di cavie umane dietro la minaccia di finire nei forni crematori. 264 furono le donne internate nella baracca 10: ebree e rom tra i venti e i quaranta anni, provenienti per lo più da Belgio, Francia, Olanda e Grecia. A tutte loro, Clauberg iniettò nella cervice uterina soluzioni caustiche per inaridire le ovaie, oppure per occludere le tube di Falloppio.
Gli esperimenti provocavano alle vittime dolori lancinanti, con febbre alta e infiammazioni delle ovaie nelle migliori delle ipotesi, fino a infezioni gravissime, emorragie delle vie genitali, e morte. Molte donne morirono sotto i ferri, altre furono uccise per eseguirne l’autopsia, altre ancora furono destinate alle camere a gas al termine degli esperimenti. Per valutare i risultati della sperimentazione, più di una volta, dopo circa un anno alcune donne furono costrette a sottoporsi a rapporti sessuali con prigionieri del campo selezionati a questo scopo.
Le testimonianze
Margita Neumann, ebrea ceca, raccontò l’esperimento cui fu sottoposta:
Il dottor Clauberg ordinò che mi sedessi sulla sedia ginecologica. Io potevo osservare Sylvia Friedmann [detenuta infermiera della Slovacchia] mentre preparava una siringa con un lungo ago. Il dottor Clauberg mi fece una puntura nel basso ventre. Ebbi la sensazione come se la mia pancia dovesse scoppiare dal dolore. Incominciai a urlare così forte che tutto il blocco poteva sentirmi. Il dottor Clauberg mi apostrofò, ordinandomi di smettere subito di urlare, altrimenti sarei ritornata immediatamente nel campo di concentramento a Birkenau. Dopo questo esperimento ebbi un’infiammazione alle ovaie.
Chopfenberg Chana, internata con matricola 50344, ha raccontato:
Il dottor Clauberg mi sottopose a quattro iniezioni, a due prove del sangue e a diversi altri esperimenti al basso ventre, soprattutto sull’utero. […] Nonostante dolori intensissimi, dopo ogni esperimento dovevo andare cantando al lavoro, col sorriso sulle labbra.
Anche l’italiana Giuliana Tedeschi, deportata da Fossoli ad Auschwitz il 5 aprile 1944, ha ricordato in un’intervista concessa a Daniela Padoan quei terribili momenti.
[…] Un giorno la capoblocco venne nel settore dove eravamo stipate a passare la quarantena, fitte nelle cuccette come conigli nelle conigliere, e prese il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di quindici persone, tra cui c’ero anch’io. Ci condussero nell’ambulatorio, dove l’esame delle greche si protrasse per tutto il giorno: misurazioni, fotografie, dettagliate visite mediche. Dapprima non capivamo, ma quando qualcuna mi disse che avrebbero condotto su di noi degli esperimenti per indurre la sterilità, mi sentii invadere da una disperazione profonda. Mi sentivo impazzire, e d’improvviso un desiderio lancinante si impossessò di me: volevo un figlio, un altro figlio. Non potevano sottrarmi quella gioia! Il ricordo della maternità, della sua infinita dolcezza, la sensazione di avere un bambino appena nato ancora legato al corpo eppure già indipendente, mi invadeva in ogni fibra.
Scampai per miracolo al blocco delle esperienze, perché ci trasferirono nel campo di lavoro. Eppure pensi che la situazione che vivevamo là dentro era talmente miserevole che alcune donne erano convinte che essere destinate alle esperienze fosse un modo per stare al caldo e ricevere qualcosa in più da mangiare. […]
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