Tutti noi, negli ultimi giorni, stiamo seguendo con apprensione quanto accade nel nord-est della Siria, stato già martoriato da un’estenuante guerra civile che va avanti ormai da quasi dieci anni, e che ha mietuto un numero di vittime impressionate, molto spesso civili: donne, uomini, bambini, con la sola colpa di essere nati nella parte sbagliata del mondo.

Subito dopo il ritiro del cordone americano nella zona di confine tra Turchia e Siria il presidente turco Erdoğan ha lanciato un’offensiva, chiamata “Operazione fonte della pace”, contro il Rojava, la regione occidentale occupata dalle forze curdo-siriane.

Quella zona è a lungo stata la più attiva nel respingimento e nella lotta all’Isis, grazie soprattutto all’azione dell’YPG curdo – l’Unità di protezione popolare – ma anche dell”Ypj, l’Unità per la protezione delle donne, guidata da Dalbr Jomma Issa. Sì, perché nella guerra snervante combattuta dalla popolazione curda del Rovaja – costituito nel 2012 come Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, non riconosciuto né dal governo siriano né da quello di Ankara, ma esempio di governo dal basso – moltissime sono le donne che hanno imbracciato i fucili per difendere la propria terra.

Adesso che la protezione americana è però venuta meno, lasciando il campo libero all’invasione turca, i militanti curdi, uomini e donne, sono stati lasciati abbandonati a se stessi a combattere un esercito decisamente più numeroso. Con un  ulteriore pericolo, tangibile, che è quello di veder riformarsi delle cellule terroristiche, dato che in questi anni proprio i curdi hanno sorvegliato e amministrato campi profughi e carceri dove sono detenuti migliaia di appartenenti all’Isis e loro familiari.

Ma perché Erdoğan  ha voluto attaccare proprio il Rovaja? Per capirlo, forse, occorre contestualizzare al meglio lo scenario socio-politico dell’area e capire chi sono i curdi.

Chi sono i curdi

Fonte: web

L’obiettivo dichiarato dell’attacco turco è quello di fermare le velleità autonomiste del popolo curdo, che come detto non appartiene né al governo siriano né a quello di Ankara. Il Kurdistan è una delle regioni più volatili al mondo, con 30-40 milioni di persone sparse in un territorio che tocca cinque nazioni diverse (Turchia, Siria, Iraq, Iran e Armenia) che, nonostante siano a maggioranza musulmana sunnita, sono sempre riuscite a far convivere benissimo altri culti.

La popolazione curda rivendica una nazione già dalla fine della prima guerra mondiale, quando, nel 1920, con il trattato di Sèvres, le potenze occidentali gliela promisero dopo lo smembramento dell’Impero ottomano. Promessa mai mantenuta, dato che tre anni più tardi, con il trattato di Losanna, la Turchia rinegoziò l’accordo con gli alleati occidentali, accantonando quindi il piano di uno Stato autonomo curdo e sancendo invece la nascita della Repubblica turca per come la conosciamo oggi.

Senza una terra, il popolo curdo è stato a lungo vittima di persecuzioni e violenze, sia durante la guerra tra Iraq e Iran durata dal 1980 al 1988, quando il regime di Saddam soffocò le ribellioni a nord con le armi chimiche, sia quando, con la prima guerra del Golfo, i curdi che tentarono di fuggire verso la Turchia furono chiusi nella striscia di terra al confine tra i due Paesi, salvati solo dall’intervento Onu che garantì loro protezione.

Essendo la Turchia una delle più strenue oppositrici dell’autonomia curda, è chiaro che il presidente Recep Tayyip Erdoğan, al potere dal 2002, abbia sempre tentato di reprimere le ambizioni nazionaliste della popolazione, arrivando anche, dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio del 2016, a chiudere decine di giornali e organizzazioni di stampo filo curde e a licenziare o sospendere 11 mila insegnanti. Ma con lo scoppio della guerra siriana la sua preoccupazione è stata che il vuoto di potere creatosi nel nord-est del Paese potesse avere ripercussioni indirette anche su Ankara, rinvigorendo la spinta autonomista curda. Soprattutto dopo la creazione, già citata, del Rovaja, in cui hanno agito i combattenti dell’YPG e dell’Ypj.

Dopo l’offensiva turca sul Rovaja l’opinione pubblica si è schierata in larga parte in favore dei curdi, criticando sia l’abbandono americano che l’indifferenza dell’Unione Europea, rea di aver lasciato i curdi ancora una volta soli a combattere. Ed è facile trovare, anche sui social, moltissimi post che difendono la causa curda, come questo, del giornalista Emilio Mola.

Con le donne curde, poi, si è schierata apertamente anche Dacia Maraini, che all’Huffington Post ha detto:

Sono piena di ammirazione per queste ragazze, per queste donne curde che combattono non solo per difendere un territorio, ma per difendere la libertà del loro popolo e per i diritti che come donne hanno conquistato. Loro sì che rappresentano un esempio, una speranza. Per questo chiunque di noi abbia una coscienza democratica, soprattutto noi donne non possiamo non dirci ‘curde’ ed essere a fianco di queste straordinarie combattenti per la libertà.

Maraini ha poi aggiunto:

Al Governo italiano mi sento di chiedere di prendere posizione e di agire di conseguenza in ogni organizzazione internazionale di cui facciamo parte, l’Unione Europea, l’Onu, la Nato. In ciò che sta avvenendo in questi giorni, in queste ore nel Nord della Siria c’è un aggressore e un aggredito. Noi dobbiamo essere dalla parte di quest’ultimo.

Molte, però, sono anche le donne che hanno perso la vita lottando prima contro l’Isis, e poi, adesso, contro l’attacco turco. La sola richiesta di queste donne è proprio di non abbandonare il popolo curdo, di non tapparsi gli occhi per ripulirsi la coscienza fingendo che tutto questo non esista, solo perché accade a chilometri di distanza da noi, dalle nostre case. È l’impegno di collaborazione e solidarietà che hanno chiesto attraverso una lettera, redatta dal Consiglio delle donne curde della Siria del Nord e dell’Est e girata ai media internazionali. Una lettera che, non a caso, si intitola “A tutte le donne e ai popoli del mondo che amano la libertà“.

La lettera delle donne curde

Fonte: web

Riportiamo la lettera in versione integrale così come pubblicata da La Repubblica il 13 ottobre.

Come donne di varie culture e fedi delle terre antiche della Mesopotamia vi mandiamo i più calorosi saluti. Vi stiamo scrivendo nel bel mezzo della guerra nella Siria del Nord-Est, forzata dallo Stato turco nella nostra terra natale. Stiamo resistendo da tre giorni sotto i bombardamenti degli aerei da combattimento e dei carri armati turchi.
Abbiamo assistito a come le madri nei loro quartieri sono prese di mira dai bombardamenti quando escono di casa per prendere il pane per le loro famiglie. Abbiamo visto come l’esplosione di una granata Nato ha ridotto a brandelli la gamba di Sara di sette anni, e ha ucciso suo fratello Mohammed di dodici anni.

Stiamo assistendo a come quartieri e chiese cristiane vengono bombardate e a come i nostri fratelli e sorelle cristiani, i cui antenati erano sopravvissuti al genocidio del 1915, vengono adesso uccisi dall’esercito del nuovo impero Ottomano di Erdogan. Due anni fa, abbiamo assistito allo Stato turco che ha costruito un muro di confine lungo 620 chilometri, attraverso fondi Ue e Onu, per rafforzare la divisione del nostro Paese e per impedire a molti rifugiati di raggiungere l’Europa.
Adesso stiamo assistendo alla rimozione di parti del muro da parte di carri armati, di soldati dello Stato turco e jihadisti per invadere le nostre città e i nostri villaggi. Stiamo assistendo ad attacchi militari. Stiamo assistendo a come quartieri, villaggi, scuole, ospedali, il patrimonio culturale dei curdi, degli yazidi, degli arabi, dei siriaci, degli armeni, dei ceceni, dei circassi e dei turcomanni e di altre culture che qui vivono comunitariamente, vengono presi di mira dagli attacchi aerei e dal fuoco dell’artiglieria.

Stiamo assistendo a come migliaia di famiglie siano costrette a fuggire dalle loro case per cercare rifugio senza avere un luogo sicuro dove andare.

Oltre a questo, stiamo assistendo a nuovi attacchi di squadroni di assassini di Isis in città come Raqqa, che era stata liberata dal terrore del regime dello Stato Islamico due anni fa con una lotta comune della nostra gente. Ancora una volta stiamo assistendo ad attacchi congiunti dell’esercito turco e dei loro mercenari jihadisti contro Serêkani, Girêsipi e Kobane. Questi sono solo alcuni degli incidenti che abbiamo affrontato da quando Erdoğan ha dichiarato guerra il 9 ottobre 2019.

Mentre stiamo assistendo al primo passo dell’attuazione dell’operazione di pulizia etnica genocida della Turchia, assistiamo anche all’eroica resistenza delle donne, degli uomini e dei giovani che alzano la loro voce e difendono la loro terra e la loro dignità. Per tre giorni i combattenti delle Forze siriane democratiche, insieme alle YPG e alle JPY hanno combattuto con successo in prima fila per impedire l’invasione della Turchia e dei massacri. Donne e uomini di tutte le età sono parte di tutti gli ambiti di questa resistenza per difendere l’umanità , le acquisizioni e i valori della rivoluzione delle donne in Rojava. Come donne siamo determinate a combattere fino a quando otterremo la vittoria della pace, della libertà e e della giustizia. Per ottenere il nostro obiettivo contiamo sulla solidarietà internazionale e la lotta comune di tutte le donne e gente che ama la libertà.

Le donne, infine, hanno scritto le loro richieste:

– Fine dell’invasione e dell’occupazione della Turchia nella Siria del nord
– Istituzione di una No-Fly zone per la protezione della vita della popolazione nella Siria del nord e dell’est
– Prevenire ulteriori crimini di guerra e la pulizia etnica da parte delle forze armate turche
– Garantire la condanna di tutti i criminali di guerra secondo il diritto internazionale
– Fermare la vendita di armi in Turchia
– Attuare sanzioni economiche e politiche contro la Turchia
– Adottare provvedimenti immediati per una soluzione della crisi politica in Siria con la partecipazione e la rappresentanza di tutte le differenti comunità nazionali, culturali e religiose in Siria.

La loro lotta eroica e senza tregua dev’essere davvero di grande ispirazione per tutti noi, uomini e donne, e la prova di un coraggio che non ha paura di alzare la voce per portare avanti una battaglia che confida essere giusta. Anche a costo della vita, quella stessa che moltissime di queste combattenti coraggiose hanno perso.

Abbiamo riportato le storie di alcune di loro, e delle donne curde, nella nostra gallery.

Per i 7 anni di Sara e i 22 di Asia: chi sono le donne curde che stanno morendo per noi
Fonte: DELIL SOULEIMAN/AFP/Getty Images
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