Donna in carriera, quel mito da donna maschilizzata che ha fatto male alle donne
La donna in carriera, quell'immagine stereotipata e vittima di tanti banali cliché che, forse, sarebbe davvero il caso di cambiare.
La donna in carriera, quell'immagine stereotipata e vittima di tanti banali cliché che, forse, sarebbe davvero il caso di cambiare.
Erano gli anni ’80, gli anni degli yuppies, della corsa alla Borsa, e anche forse i primi anni in cui, dopo il ’68 e le rivoluzioni pacifiche degli hippy anni ’70, le donne provavano ad affacciarsi sul mondo del lavoro con maggiore vigore e convinzione, aspirando a ruoli che andassero ben al di là di quelli generalmente associati all’immagine femminile, ovvero segretarie, insegnanti, commesse.
Spinte forse anche dalle importantissime conquiste sul piano sociale – sul finire degli anni ’70, per fare due esempi, in Italia vennero approvate la legge sul divorzio e sull’aborto – le donne iniziarono a reclamare anche un loro posto nel mondo lavorativo, cominciando immaginarsi come manager, dirigenti d’azienda, direttrici o presidenti di qualche importante istituto.
E c’è da dire che, nonostante il gender pay gap tuttora esistente e la reticenza generale a far affermare una donna in ruoli prestigiosi, abbiamo comunque tantissimi esempi di donne che sono riuscite, professionalmente parlando, a ritagliarsi davvero quel ruolo per cui hanno studiato e lottato.
Come spesso capita, però, attorno alla figura della donna in carriera si sono creati altrettanti stereotipi e cliché, che banalmente invece non riguardano mai l’uomo manager; probabilmente perché, nell’immaginario di qualcuno, almeno, è naturale per un uomo ambire alla carriera ma non lo è altrettanto per una donna, perciò chi che si è realizzata professionalmente deve per forza avere qualcosa di “sbagliato”. È chiaro che parliamo di falsi miti, eppure sono talmente permeati nella nostra cultura da essere ritenuti ormai quasi accettabili.
Questi sono gli esempi più classici.
Fra le figure iconiche più tradizionali c’è quella della donna in tailleur con gonna aderentissima e camicetta rigorosamente scollata. Un’immagine incredibilmente stereotipata ma altrettanto diffusa, che implicitamente (ma non troppo) rimanda alla fortissima carica erotica e sessuale delle donne, non raccontando quindi nulla di nuovo. Come a dire, sarà pure la boss, ma è pur sempre un oggetto sessuale su cui fantasticare.
Anche per questo Marissa Mayer, ex ad di Yahoo e prima ingegnere donna assunta da Google, nel 2013 ha posato per Vogue America in una posa volutamente ammiccante, con tubino blu e tacchi vertiginosi, languidamente sdraiata su un lettino bianco e con occhio ammaliante rivolto all’obiettivo.
La foto, all’epoca, divise l’opinione pubblica, non solo americana. Un articolo de Linkiesta dell’epoca recita:
una donna come lei, arrivata a quei livelli grazie a capacità e competenza, aveva davvero bisogno di auto-compiacersi in una foto che la presenta come ‘the beautiful geek’? La Mayer, il simbolo del riscatto femminile nell’ambiente della tecnologia, dove a memoria non si ricordano donne di successo, potrebbe finire così per danneggiare soprattutto il suo stesso sesso. Il messaggio, infatti, mandato all’America e al mondo sembra a dir poco controverso: per avere il mio stesso successo, il cervello non è nulla senza la bellezza!
In realtà, il messaggio a noi sembra proprio l’opposto, ovvero il fatto che io sia bella non esclude affatto che sia anche molto preparata e competente nel mio lavoro, così come non è assiomatico il contrario. Se scelgo di vestirmi in un certo modo lo faccio perché mi trovo bene in quei panni, e non perché desiderio che la mia bellezza sia messa in primo piano rispetto alle mie doti professionali.
Allo stesso modo, se scegliessi abiti molti rigorosi non significherebbe che io desideri “comprimere” la mia femminilità. L’immagine, insomma, sembra in realtà una provocazione a chi sente costantemente la necessità di categorizzare le persone, riducendole al rango di una mera etichetta.
È un altro grande cliché, che si basa sul presupposto che le donne continuino a risentire di un certo complesso di inferiorità verso l’altro sesso, da sempre descritto con aggettivi come “forte, dominante”, e perciò facciano di tutto per assomigliargli, compreso il fare propri atteggiamenti, vizi, e persino il look.
Ecco quindi le immagine stereotipate di donne androgine con completi gessati, cravatte, gemelli ai polsi, bretelle e mocassini lucidi; una sorta di Victor Victoria trasportata nel mondo degli affari, insomma. Perché l’autorità, per qualcuno, resta sempre e comunque prerogativa esclusiva maschile, e dato che una donna non potrà mai essere un uomo, ciò che le rimane per avvicinarvisi è diventarne uno scimmiottamento.
Non più di quanto possa esserlo un uomo, in realtà. Eppure, un infondato pregiudizio ritiene che la donna che abbia avuto successo nella vita lavorativa debba per forza essere arrivista, un’arrampicatrice sociale, disposta a passare sopra tutto e tutti pur di arrivare.
Generalmente a questa idea si associa anche quella della donna che “rinuncia” a figli e famiglia per conquistare un posto di prestigio nel mondo del lavoro. Perché è chiaro, un altro dei cliché più frequenti è che la donna si trovi costantemente di fronte a un aut aut: o la realizzazione familiare, o quella professionale.
Ed è inutile o quasi dire che, a chi sceglie questa seconda opzione, vengono riservati quegli epiteti davvero poco gradevoli di “donna a metà”, “donna non realizzata”, e quelle frasi che tendono a rimarcare come l’assenza di un marito o di un figlio siano davvero la peggiore cosa augurabile a una donna: “Vedrai che te ne penti”, “Ripensaci”, “Non ne vale la pena”.
Questo perché, per quanto ci si sforzi di normalizzarlo, il concetto di childfree, ovvero l’idea che, consapevolmente, una donna scelga di non avere figli, indipendentemente dalle ambizioni di carriera, non ancora socialmente accettato. Solo nel caso delle donne, ovviamente, dato che un uomo refrattario alla paternità non viene assolutamente ritenuto da biasimare.
Tra i più divertenti e piacevoli degli ultimi anni, il film del 2006 di David Frankel, ispirato all’omonimo romanzo di Lauren Weisberger offre un’interessante duplice prospettiva proprio sul mondo delle donne in carriera e sul tipo di scelte cui si ritiene siano costrette: da un lato c’è la direttrice di Runaway, Miranda Priestly (l’eccezionale Meryl Streep), che “ricalca” i racconti della Weisberger su quella che, presumibilmente, è la temibilissima direttrice di Vogue Anna Wintour.
È autorevole, spietata, cinica, severissima, ma intimamente debole, perché, avendo dedicato tanto tempo al lavoro, non è riuscita a costruire una vita privata altrettanto ricca di soddisfazioni; memorabile è la scena in cui Andrea (Anne Hathaway) la sorprende in accappatoio, con gli occhi arrossati, e lei le dice di aver divorziato, di nuovo. Come se l’infelicità personale fosse il prezzo da pagare per aver investito tanto sulla propria professione.
Dall’altro lato c’è appunto Andrea, che arrivata a New York con l’ambizione di poter scalare la vetta partendo dalla gavetta, capisce di non essere tagliata per l’eccessiva pressione, per i ritmi frenetici, e soprattutto che non è disposta a perdere affetti e amore per un lavoro, e decide quindi di andarsene, ritornando al paesello e a una vita più “a misura”. In realtà le cose non impongono sempre e comunque una scelta, non c’è un bivio a cui decidere quale piega prenderà la propria vita, ma è chiaro che al cinema gli stereotipi tanto comuni vengano addirittura esasperati, come vi mostriamo in gallery.
Potremmo citare tantissimi esempi di donne in carriera che non hanno dovuto sgomitare né “scavalcare” qualcuno per arrivare, che non hanno dovuto mostrare altro se non il proprio talento o la preparazione acquisita con anni di studio, che non hanno dovuto rinunciare ad avere figli e famiglia a causa del lavoro e non si sono dovute “maschilizzare” per essere accettate. Parliamo di Fabiola Gianotti, della stessa Marissa Mayer (madre di tre figli), Francesca De Pascale, mamma e social media manager per Garnier Italia (Gruppo L’Orèal), e di tutte le altre donne della nostra rubrica Women at Work.
Gli stereotipi sono duri a morire, ma possiamo sperare di partire almeno da loro.
La trentenne Tess McGill (Melanie Griffith) da semplice segretaria sfruttata dal suo capo Katherine Parker (Sigourney Weaver) diventa un’importante esponente dell’alta finanza.
Andrea-Andy viene assunta come stagista nella prestigiosa rivista di moda Runaway, diretta dalla terribile Miranda Priestly. Col tempo finirà con il farsi apprezzare da quest’ultima, ma sceglierà di abbandonare un mondo troppo insidioso per lei.
Kate Reddy (Sarah Jessica Parker) è una 35enne che riesce a coniugare perfettamente il suo impegno nella ditta di gestione finanziaria per cui lavora con il matrimonio felice con l’architetto disoccupato Richard e i suoi figli.
J. C. Wiatt (Diane Keaton) è una donna in carriera assunta da una grande società di New York che riceve una telefonata notturna proprio alla vigilia di un importante contratto di lavoro. Scoprirà che il cugino, defunto in un incidente, le ha lasciato sua figlia, la piccola Elizabeth.
Dopo la morte della sorella e del cognato, Helen (Kate Hudson) che lavora per un’agenzia di modelle dove sta facendo carriera, si ritrova all’improvviso a occuparsi dei suoi tre nipoti: l’adolescente Audrey, il problematico Henry e la piccola Sarah.
Margaret Tale (Sandra Bullock) è una cinica editrice di New York che sfrutta il suo assistente Andrew (Ryan Reynolds) senza pietà. Per avere la Green Card che le permetterebbe di non essere rimpatriata in Canada finge di essere fidanzata con lui.
Amanda Woods (Cameron Diaz) è una montatrice di trailer di Los Angeles che ha appena rotto con il suo fidanzato, Ethan; per capriccio decide di prendere una pausa dalla carriera andando molto lontano da casa. Trova Iris (Drew Barrymore), appena mollata dal fidanzato che l’ha tradita, nel Surrey, e decide di scambiare la propria lussuosissima casa con lei.
Elle Woods (Reese Witherspoon) decide di dimostrare al fidanzato di non essere una bionda stupida, ed entra perciò ad Harvard riuscendo a diventare una temuta avvocata, senza mai rinunciare alla frivolezza.
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