Drag queen: né trans, né crossdresser. Un fenomeno culturale (e non da baraccone)
Colorate, esagerate, ma soprattutto libere: le drag queen sono un inno a mostrarsi per ciò che si è, non un fenomeno da baraccone.
Colorate, esagerate, ma soprattutto libere: le drag queen sono un inno a mostrarsi per ciò che si è, non un fenomeno da baraccone.
Spesso le drag queen sono state identificate, a torto, solo e soltanto come uomini omosessuali che amano vestirsi da donna, ma non hanno mai pensato a un cambio di sesso. Niente di più sbagliato, perché nel mondo e nella storia delle drag queen c’è molto di più.
Partiamo dall’origine del nome tornando a prima del 1683, quando Carlo II (soprannominato “the merry monarch”, l’allegro monarca) concesse alle donne di recitare a teatro; fino a quel momento, infatti, le parti femminili dovevano essere interpretate proprio dagli uomini, di cui nessuno osava però mettere in dubbio la virilità, naturalmente.
Da qui, e dal loro dover indossare abiti, lunghe sottane e sottogonne, potrebbe risalire il nome, dal verbo “to drag”, ossia trascinare (quelle vesti dovevano essere trascinate, appunto, sul palco”, o dalla formula “to put on their drags”, ovvero “indossare i propri strascichi”, che inizia a diffondersi nel gergo teatrale tra il XVII e il XVIII secolo.
Secondo un’altra versione, invece, drag sarebbe l’acronimo di “Dressed resembling a girl”, cioè “vestirsi per somigliare a una donna”, un ruolo che era accettato solo per motivi di spettacolo, visto che fino ai primi del ‘900 omosessualità e travestitismo erano fuori legge.
Fu nell’America degli anni ’20 e ’30 che nacque il vaudeville, che rese le drag queen non più comprimarie, ma prime donne a tutti gli effetti, e durante il Proibizionismo gli speakeasy, i locali dove di nascosto si servivano alcolici, diventarono una sorta di porto sicuro anche per le drag queen.
Dopo la seconda guerra mondiale le regole contro il travestitismo, l’omosessualità e le drag queen si fecero però ancor più aspre, per via della la three pieces rule, la “regola dei tre capi”, per cui si evitava l’arresto per travestitismo dimostrando di indossare almeno tre capi di abbigliamento che fossero conformi al genere di appartenenza.
Le retate frequenti della polizia sbattevano in prima pagina i nomi delle drag queen arrestate senza pudore, con gravi conseguenze per la loro vita privata; fu quello che successe, ad esempio, a José Sarria, che a causa di una denuncia per adescamento dovette rinunciare al sogno di diventare insegnante; l’episodio fu però il motore che lo spinse a dire “United we stand, divided they’ll catch us one by one”, ossia “uniti resistiamo, divisi ci prenderanno uno a uno”, e a candidarsi, nel 1961, al consiglio cittadino, prima persona omosessuale a farlo.
Eletto, decise di assumere il titolo di Imperatrice.
Ma a dare una svolta fondamentale furono anche Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson, transgender, a capo dei moti di Stonewall che nel 1969 rivendicarono l’orgoglio LGBT. Benché ancora vigente la regola dei tre capi, negli anni ’70 iniziarono a diffondersi i drag ball, feste a tema in cui nacquero vere e proprie generazioni di drag queen, come raccontato, fra gli altri, nella serie tv Pose.
A partire dagli anni ’60 le drag queen hanno intrecciato inevitabilmente la propria strada con quella della comunità LGBT, anche se qualcuno, all’interno di quest’ultima, le definisce “eccessive”. Tanto da averne vietato la parata al Pride di Glasgow, per paura di offendere i transgender.
Tutta colpa di una confusione terminologica che continua a persistere, anche all’interno del movimento stesso.
Posto che oggi il termine travestito non sia più molto in voga, fra le drag queen e i cross-dresser esiste comunque un’enorme differenza: quella delle drag queen è infatti un’arte, non appannaggio esclusivamente degli uomini omosessuali, né degli uomini (ne parleremo fra poco).
Se prima del ‘900 erano una necessità per sopperire ai divieti in essere per le donne di partecipare a spettacoli teatrali, oggi riflettono soprattutto pregi e difetti umani, e sono lo specchio di una società in continuo mutamento, in cui però certi pregiudizi faticano a sparire. Che le drag siano diventate un vero e proprio fenomeno di cultura lo dimostra anche la presenza di show come RuPaul’s Drag Race, un vero e proprio talent sulla scia di America’s Next Top Model in versione drag, condotto dalla più rappresentativa di loro, RuPaul, giunto ormai alla dodicesima stagione.
Quella di RuPaul, vera icona delle drag queen, è una figura di importanza fondamentale perché ha fatto comprendere che, più di tutto, il ruolo di una drag è quello di sovvertire i tradizionali dogmi, anche di genere, imposti dal patriarcato; RuPaul in molti suoi testi parla di accettazione del sé, sia in chiave femminile che come gay/drag.
Potete chiamarmi lui, potete chiamarmi lei, non mi importa. Basta che mi chiamiate!
È una sua famosa dichiarazione.
Con il termine crossdresser, invece, descriviamo una persona che indossa abiti solitamente associati al sesso “opposto”, come forma di espressione di genere. In maniera molto soft, è un discorso applicabile alle lesbiche butch, ad esempio, che sono spesso oggetto di discriminazione anche all’interno delle sezioni femministe della comunità LGBT perché troppo desiderose di ispirarsi agli uomini, dal punto di vista estetico.
Non esistono però solo le drag queen, perché, come anticipato, non solo gli uomini possono esserlo. Esiste anche il fenomeno dei drag king.
Proprio come per quanto riguarda le drag queen, anche fra i drag king ci sono donne etero, omosessuali o trans. Il fenomeno dei drag king nasce, quasi di pari passo a quello delle drag queen, sul finire dell’800, e la più famosa donna drag king fu senza dubbio Vesta Tilley, considerata una vera e propria antesignana del genere.
Anche in questo caso, parliamo di una forma d’arte, che richiede una preparazione e un’attenzione alla cura dei dettagli specifici, e non è certo considerabile come un “costume di Carnevale”.
Per riuscire nell'”impresa”, ad esempio, i drag king ricorrono al bending, ovvero le fasciature per appiattire il seno, al contouring per rimarcare alcuni tratti del viso, o al packing, che conferisce appunto il “pacco”.
Un esempio contemporaneo di drag king (seppur per breve tempo) è Jo Calderone, l’ater ego maschile di Lady Gaga, comparso nel video della stessa artista You and I, e nientemeno che su Vogue Giappone.
Quello per la preparazione di una drag queen è un vero e proprio rituale che segue passaggi precisi e mostra attenzione per ogni dettaglio, dal trucco all’abito, fino alla parrucca.
Cominciamo proprio con il trucco: generalmente i colori usati dalle drag queen sono sgargianti, saturi e brillanti.
Prima di tutto occorre “cancellare” le sopracciglia, ovvero coprirle con del mastice o con la cosiddetta “carne liquida”, un trucco usato a teatro che crea una patina uniforma e spessa, che copre ogni pelo.
La base viene fatta con un fondotinta ad altissima coprenza, che quasi “elimini” i lineamenti originali, da riscolpire grazie a un contouring davvero forte; per quanto riguarda il trucco occhi via libera a smokey eye, glitter, ciglia finte e sopracciglia ridisegnate a formare espressioni teatrali e divertenti.
Anche qui la parola d’ordine è solo una: colore. Gli abiti delle drag queen sono quasi di scena, perciò devono essere teatrali, ostentatamente sfarzosi, in modo da attirare l’attenzione del pubblico durante la performance.
Inoltre, spesso le drag queen fanno spettacoli a tema, impersonando personaggi storici o famosi, e usano piume, boa di struzzo, merletti, pizzi o abiti dalle tonalità fluo.
Le drag queen possono giocare con i loro capelli, nascondendo quelli veri sotto una pratica calotta per poi sbizzarrirsi con colori e tagli: possono spaziare dai lunghi boccoli biondo platino ai tagli corti sullo stile della Valentina di Crepax, ma anche divertirsi con tonalità più strong, come i viola, i rosa, i blu. L’obiettivo è sempre e solo stupire.
È sicuramente l’obiettivo principale delle drag queen: restituire al pubblico una forma d’arte, ma anche di politica, che ci liberi dalle sovrastrutture patriarcali che ci forzano in ruoli di genere e pretendono da noi determinati comportamenti rispetto al nostro sesso biologico.
Essere drag queen, come detto, non significa per forza essere omosessuali o cross-dresser, ma allo stesso tempo ha una valenza diversa rispetto a quel passato, cui accennavamo prima, dove era ritenuto accettabile per un uomo vestirsi da donne, essendo queste ultime interdette dalle manifestazioni culturali della società: oggi che le donne possono, ovviamente, recitare, cantare e fare spettacolo, le drag queen si affiancano a loro per offrire una forma artistica che parli prima di tutto di libertà e si discosti da quelle costrizioni socioculturali che amano distinguere le “cose da donne” dalle “cose da uomini”.
Proprio perché manifestanti di una forma d’arte, però, le drag queen devono essere chiamate con pronomi femminili durante i loro show, perché in quel momento loro sono il loro personaggio.
Da evitare, quindi, la figuraccia – sicuramente in buona fede, per carità – di Carlo Conti che, durante il Festival di Sanremo del 2015, si riferì all’ospite Conchita Wurst usando appunto il maschile. A peggiorare le cose fu poi anche una domanda “scomoda”,
Dimmi la verità, secondo te questa barba ti ha aiutato nella vittoria o no?
Che, come ben spiega un articolo di Bossy, continua a
perpetrare l’idea che le drag queen siano qualcosa di comico, alla stregua di un fenomeno da baraccone.
È bene ricordare invece che si tratta di una forma d’arte da rispettare.
Non capire il lato artistico e legato alla performance del drag è ciò che porta a non dividere la persona dal personaggio. Questo spiega anche perché Carlo Conti abbia cominciato l’intervista chiamandola ‘Tom’.
La risposta più importante, comunque, in quell’occasione l’ha data proprio Conchita:
Mi sarei sentita incompleta senza la barba. Se una persona non si sente pronta, non è possibile avere successo. Quindi per me la barba ha avuto un’enorme importanza, non so se abbia contato per gli altri. Ha contato per me.
Oltre a RuPaul, vera decana delle drag queen, ce ne sono molte altre che hanno contribuito a costruire la loro storia e sono diventate vere e proprie icone culturali. Ne abbiamo parlato in gallery.
Nato come RuPaul Andre Charles, si fa strada negli ambienti gay di Atlanta e New York come cantante e go-go dancer negli anni ’80, raggiungendo un successo clamoroso con Supermodel (you better work), tanto da duettare, nel 1994, con un’altra icona gay, Elton John, in Don’t Go Breaking My Heart.
Nei ’90 diventa la prima drag queen testimonial per la più nota marca di make-up professionale, MAC, che lancia la campagna MAC AIDS Fund nel 1996. Dal 2009 conduce il talent show Ru Paul’s Drag Race.
Ha fatto apparizioni, come drag e non, in serie di successo come Hercules, Sabrina Vita da Strega, Walker Texas Ranger, Ugly Betty, 2 Broke Girls e Girlboss.
Julian è stato sicuramente l’esponente più rappresentativo del vaudeville, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Mr. Lillian Russell ” per la famosa star della commedia musicale e di bellezza. Ha recitato in teatro – ricordiamo in particolare L’affascinante vedova – e nel cinema muto, morendo nel 1941, dopo uno spettacolo, per emorragia cerebrale.
Rifiutò a lungo le voci che lo volevano omosessuale, anche se qualcuno, nel giro della buona società newyorchese, lo ritenesse indiscutibilmente gay. In ogni caso, della sua vita privata si seppe davvero poco.
Assieme a Sylvia Rivera fu alla testa dei moti di Stonewall del 1969; nato Malcolm Michaels Jr. si impegnò a lungo per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali, e co- fondò il gruppo di attivisti radicali Street Transvestite Action Revolutionaries (STAR), proprio insieme a Rivera.
Nel 1992 Marsha viene trovata morta nel fiume Hudson, a New York. Per gli inquirenti si trattò di suicidio, ma secondo gli amici e i conoscenti della vittima fu assassinata; nonostante i dubbi il dossier sul suo caso venne archiviato, e la verità sulla sua morte di Marsha non è mai venuta a galla.
A Divine, icona drag degli anni ’80, è stato ispirato il personaggio della malvagia strega del mare Ursula nel cartone La sirenetta.
A dargli il nome con cui diventò una celebrità fu l’amico regista John Waters, per cui Divine – il cui nome da uomo era Harris Glenn Milstead – diventò un vero e proprio feticcio, girando insieme 9 film.
Vincitrice della sesta edizione del talent show di RuPaul, il suo nome da uomo è Ray Haylock, ed è stata la prima drag queen ad esibirsi da sola alla Wembley Arena, durante il tour Strictly del 2019.
Nata Darius Jeremy Pierce, Shangela è una vera e propria celebrità fra le drag queen, essendo stata la prima a percorrere un red carpet durante gli Oscar; ha infatti preso parte al pluripremiato A star is born, duettando nelle scene iniziali con Lady Gaga.
Nata in Germania come Thomas Neuwirth, si è fatta conoscere da tutto il mondo vincendo l’Eurovision Song Contest nel 2014 con il brano Rise like a phoenix.
Questa serata è dedicata a tutti coloro che credono in un futuro di pace e libertà. Voi sapete chi siete. Noi siamo unità e siamo inarrestabili!
Fu il suo commento dopo la vittoria. Nel 2018 ha dichiarato su Instagram di essere sieropositiva da anni.
Cosa ne pensi?