Emanuela Loi e gli altri angeli di Paolo Borsellino che saltarono in aria con lui
Il 19 luglio 1992 la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino: con lui persero la vita la giovane poliziotta Emanuela Loi e altri 4 agenti della scorta.
Il 19 luglio 1992 la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino: con lui persero la vita la giovane poliziotta Emanuela Loi e altri 4 agenti della scorta.
Qualche settimana dopo la strage di Capaci, nel maggio del 1992, Paolo Borsellino, intervistato da Lamberto Sposini, parlava di se stesso come di “un cadavere che cammina”. La stessa cosa la ripeté a un giovanissimo Salvo Sottile che correva per tutta Palermo per intervistarlo. Poco prima della morte, il magistrato disse “Quel tritolo è arrivato per me” commentando una segnalazione contenuta in un rapporto dei Ros. Era, insomma, consapevole di trovarsi di fronte a un destino senza scelta e dall’epilogo già segnato.
Nel giugno del 1992, invece, una giovanissima poliziotta, che aveva seguito il sogno della sorella Maria Claudia di entrare nelle forze dell’ordine (quest’ultima, però, non fu ammessa) venne assegnata alla scorta del magistrato, dopo aver seguito l’allora onorevole Sergio Mattarella, la senatrice Pina Maisano Grassi e aver piantonato il boss Francesco Madonia, mentre l’Italia ancora piangeva Giovanni Falcone, ucciso con la moglie Francesca e gli agenti della scorta nella strage di Capaci avvenuta quello stesso 23 maggio.
Proprio in seguito a quell’attentato di matrice mafiosa i genitori di questa giovane poliziotta temevano per la sua vita, tanto che lei dovette rassicurarli, dicendo loro che non le sarebbe successo nulla.
Forse nelle sue parole c’era solo la volontà di tranquillizzare mamma e papà, rimasti a Sestu, nel cagliaritano, mentre lei seguiva quello che era il suo mestiere e la sua passione, forse Emanuela Loi ci credeva davvero, che avrebbe avuto davanti a sé una vita lunga e serena, che quella professione l’avrebbe fatta per tanti anni, fino alla pensione.
Invece, la sua esistenza fu spezzata, insieme a quella di altri quattro colleghi e del magistrato Borsellino, in un’assolata domenica pomeriggio, alle 16:58 del 19 luglio 1992, nella stretta via Mariano D’Amelio, quando una Fiat 126 rubata, caricata con circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H (una letale miscela di PETN, tritolo e T4) fu fatta esplodere attraverso un dispositivo telecomandato, proprio sotto il palazzo al numero 21, dove risiedeva la madre del giudice, che il figlio voleva andare a trovare.
Borsellino da tempo parlava di se stesso come di “un cadavere che cammina” perché, in cuor suo, dopo la morte dell’amico e collega Falcone, sapeva che Cosa Nostra non gli avrebbe lasciato scampo, che l’avrebbero trovato dovunque e dovunque l’avrebbero ammazzato. Persino sotto casa della mamma.
Emanuela no, forse non sapeva che la mafia le avrebbe riservato lo stesso, crudele destino, quello di diventare un eroe della patria perdendo la vita lì, in quella strada che, pure, era considerata molto pericolosa perché stretta, tanto che, come rivelato in una intervista rilasciata alla RAI da Antonino Caponnetto, magistrato a lungo alla guida del Pool Antimafia, alle autorità di Palermo era stato chiesto di vietare il parcheggio di veicoli davanti alla casa, richiesta che rimase però inascoltata.
Oggi a Emanuela Loi, prima donna a morire in servizio in Italia, sono state intitolate scuole a Genova, Sestu, Carbonia, Roma, strade, ponti e parchi in tutto il paese, mentre il suo ricordo è portato avanti dalla sorella Claudia, proprio colei che le aveva ispirato il sogno di diventare poliziotta, la quale continua a parlare di Emanuela nelle scuole e grazie all’associazione antimafia Libera, fondata e presieduta da Don Luigi Ciotti.
A lei, e ai suoi colleghi uccisi dall’odio della mafia, va ancora oggi il ricordo, commosso e silenzioso, di tutta quell’Italia che nelle morti di Borsellino, Falcone, dei loro agenti di scorta e di tutte le vittime di Cosa Nostra vede ancora una ferita aperta e mai rimarginata, quell’Italia che però ha creduto in loro e nella loro missione e li porta nel cuore come eroi ed eroine “normali”, voci di un paese che voleva e ha saputo ribellarsi e dire “no” al crimine. Anche a costo della propria vita.
Emanuela era entrata nella Polizia di Stato nel 1989, frequentando il 119º corso presso la Scuola Allievi Agenti di Trieste; da un mese era stata assegnata alla scorta di Borsellino. Nel 2012 la sorella Maria Claudia, che porta avanti il suo ricordo, pronunciò queste parole in aula consiliare a Sestu, paese di origine della famiglia, poi riportare nella pagina Facebook Ricordando Emanuela Loi:
Nonostante la tragedia della morte di Emanuela abbia tracciato su di noi un solco profondo di sofferenza, sinceramente vi dico che non conserviamo dei sentimenti di odio verso gli assassini, ma bensì un desiderio di giustizia, di legalità e di memoria.
Mio padre da subito ha creduto in questi ideali e per questo ha girato in lungo e in largo in tutta Italia, in qualunque parte lo chiamassero, fin poco tempo prima della sua morte. Era sempre presente per testimoniare la memoria di sua figlia. E questo lo provò moltissimo sia moralmente che fisicamente, ma lo fece con grande coraggio, convintissimo di quanto fosse importante il non dimenticare.
Era come se sua Figlia gli avesse consegnato una missione da compiere, nulla poteva distoglierlo. La sofferenza dovuta al dispiacere pian piano consumarono le sue forze e dopo cinque anni mori. Io e mia mamma abbiamo continuato sull’esempio di mio padre, anche se con intensità minore. Ora sono io, mio fratello e mia nipote che dobbiamo portare avanti questa eredità che ci è stata assegnata con il sacrificio di Emanuela.[…]
E allora il valore della memoria e del bene che i nostri cari hanno compiuto nella vita terrena diventa un patrimonio per la nostra società. Le parole da sole non servono a niente, ma vogliamo vederle tradotte in giustizia, in legalità, dignità umana per tutti. Dobbiamo tenere acceso il fuoco della speranza per non cedere di fronte alla violenza e al male, anche se la tentazione può essere grande. La violenza non è la forza dell’uomo ma solo la sua debolezza. Essa non potrà mai essere creatrice di cosa alcuna, ma solo distruggerla.
Non cadiamo nella tentazione di vivere senza ideali. Noi testimoni della speranza, noi sentinella del bene, per tutta la nostra società dobbiamo trovare la forza della testimonianza perché aspiriamo a un mondo migliore.
Un articolo scritto nel ventiquattresimo anniversario della scomparsa ricorda la passione per le moto e le auto da corsa di Vincenzo, ma anche il suo grande amore per Vittoria, con cui voleva sposarsi e costruire una famiglia. Da sempre il suo sogno era quello di diventare poliziotto, e ci riuscì nel 1990, per essere poi assegnato alla Questura di Palermo durante la primavera del 1992. Fabio – come lo chiamavano in famiglia- pianse davanti alle immagini dopo la strage di Capaci, distrutto dalla vigliaccheria della mafia. Proprio in quel momento decise di farsi assegnare alla scorta del giudice Borsellino. “Noi non lo sapevamo, non sapevamo nulla del suo lavoro”, disse nell’articolo sua sorella Sabrina.
Sono sempre stata arrabbiata e non ho mai voluto parlare di questa storia perché ho sempre pensato che non è giusto che mio fratello sia morto per uno Stato che non lo ha cautelato – ha detto Sabrina in un’altra intervista – però è anche vero se non ci sono persone come questi ragazzi, come mio fratello, come Falcone e Borsellino, questa società chi la deve cambiare? La società è nelle nostre mani, nelle mani dei ragazzi, e non ci dobbiamo arrendere, dobbiamo lottare, lo Stato dobbiamo essere noi. Noi lo sappiamo che chi è al vertice è marcio, però dobbiamo lottare perché se ci arrendiamo è finita.
Nelle parole di sua sorella Edna ci sono dolore ma anche speranza e forza:
Sappi che abbiamo ancora tanta speranza che il tuo sacrificio non sia accaduto invano. Sappi che c’è ancora tanta gente onesta che ogni giorno lotta, alcuni rischiando la vita, per i tuoi stessi ideali. Sappi che non sei andato via. Sappi che tu vivrai sempre in noi.
Non è il tempo che passa che lo fa dimenticare.
Disse Luciano, il fratello di Claudio, che nel ventiquattresimo anniversario della scomparsa ha ricordato soprattutto la mattina, trascorsa insieme al mare a pescare. Non era molto il tempo che riuscivano a trascorrere insieme, Luciano e Claudio, entrambi poliziotti a Palermo; ma quella giornata, le ultime ore trascorse insieme, sono la cosa più bella che Luciano custodisce nel suo cuore. Marco, suo figlio, è nato lo stesso giorno dello zio Claudio.
Agostino aveva sempre avuto il sogno di diventare poliziotto, disse il fratello Tommaso, come si legge nello stesso articolo di Memoria e Impegno; metteva da parte i soldi della paghetta e adorava giocare a guardie e ladri. Superò il concorso in Polizia e vi restò fino alla fine di novembre del 1970. Agostino aveva deciso di dedicarsi alla sua famiglia, a sua moglie Maria e ai suoi tre figli e trovò un lavoro più tranquillo, nelle Ferrovie. Ma fu il rapimento di Aldo Moro a determinare la sua scelta di ritornare in Polizia. Nessuno sapeva che faceva parte del servizio scorte, in cui era entrato nel 1984.
Antonino Vullo, unico sopravvissuto alla strage (stava facendo manovra per parcheggiare la prima auto del corteo) ha ricordato così quel drammatico momento, come riporta Wikipedia.
Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…
Paolo Borsellino fu il più giovane magistrato d’Italia, essendo riuscito a diventarlo nel 1963, a soli 23 anni. Entrò a far parte del pool antimafia voluto da Rocco Chinnici, assieme a Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Grazie a loro vennero condannati ben 342 persone legate alla mafia (con 19 ergastoli) nel maxi processo svoltosi nel carcere dell’Ucciardone, a Palermo.
Dopo la strage di Capaci, Borsellino si riferì spesso a se stesso come a “un cadavere che cammina”, intuendo che la mafia non gli avrebbe dato tregua.
Sono andata da Giuseppe e Filippo Graviano con l’idea che può vivere e morire con dignità non soltanto il magistrato che sacrifica la propria vita, ma anche chi pur avendo fatto del male è capace di riconoscere il grave male che ha inflitto alle famiglie e alla società, è capace di chiedere perdono e di riparare il danno – ha detto la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, in una lettera scritta a Repubblica – Riparare il danno per me vuol dire non passare il resto della propria vita all’interno di un carcere, ma dare un contributo concreto per la ricerca della verità.
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