"Io, immigrata, vi racconto davvero cosa significa viaggiare con il barcone"
Evelyne Sukali, da nove anni in Italia, ci racconta davvero cosa significa viaggiare per mare con il barcone. E come si combatte il razzismo.
Evelyne Sukali, da nove anni in Italia, ci racconta davvero cosa significa viaggiare per mare con il barcone. E come si combatte il razzismo.
Per quanto se ne parli spesso, pochi di noi sanno in realtà cosa significhi essere un immigrato. Quasi nessuno, oggi, sa cosa significhi davvero affrontare un viaggio con il barcone, ad esempio, anche se questo non ferma le aberranti affermazioni di qualcuno ogni qualvolta si verifica una tragedia in mare, come i social purtroppo dimostrano in ogni occasione.
Per questo, abbiamo provato a cambiare prospettiva, e a dare la parola, finalmente, a chi quel viaggio in mare lo ha fatto davvero, e può raccontare in prima persona cosa ha significato compierlo. Abbiamo deciso di intervistare Evelyne Sukali, una ragazza congolese arrivata in Italia circa dieci anni fa che, proprio per mettere al servizio degli altri la sua esperienza, ha deciso di aprire sia un canale YouTube che, soprattutto, un profilo Tik Tok che vanta più di 14 mila followers.
Lo facciamo per provare a toglierci da quell’ottica di whitesplaining, che ha a che fare con il razzismo e con quel sempiterno senso di superiorità di cui i bianchi si ammantano, convinti evidentemente di valere tanto più dei neri da poter addirittura stabilire come essi vadano aiutati (secondo la prospettiva del white savior), di cosa abbiano bisogno, ma anche di metterne (spesso) in discussione i motivi per cui si trovano costretti ad abbandonare i propri Paesi di origine per cercare fortuna altrove.
Allora la prima domanda che ci sentiamo di doverle fare è proprio quella: ce lo racconti quel viaggio col barcone?
“Il viaggio con il barcone è durato nel suo complesso 17 mesi – ci spiega – Sono partita dal Congo prendendo mezzi di fortuna, avevo 22 anni, non sapevo a cosa andassi incontro, ed è stato davvero difficile. Sono partita per motivi personali che, ad oggi, non ho ancora trovato la forza di condividere, spero di poterne un giorno parlare senza paura di essere giudicata né vergognarmi.
Sicuramente alla base della mia decisione c’è stata però anche l’incoscienza, l’incapacità di comprendere a cosa stessi andando incontro. Presa dall’entusiasmo della gioventù sono partita, inizialmente a bordo di piccole imbarcazioni nel fiume congolese, poi da lì ho raggiunto una città, ho attraversato il confine per la Repubblica Centrafricana percorrendola da Sud a Nord, fino ad arrivare al confine con il Ciad. Ho attraversato anche il Ciad, poi il deserto, fino a trovarmi in Libia, dove sono rimasta per circa 8 mesi, fino allo scoppio della Primavera Araba.
Evelyne risponde indirettamente anche a un’altra delle grandi questioni che, spesso, vengono messe sul piatto quando si parla di immigrazione, ovvero: vogliono venire tutti qui in Italia.
“In tutta sincerità, io non sono partita dal Congo con destinazione Italia, sono partita dicendo che dove mi sarei trovata bene mi sarei fermata. Solo che, strada facendo, abbiamo sempre incontrato situazioni di guerre, pericolose, che mi hanno costretta ad andare avanti. Per 17 mesi ho dormito per terra, su quella che noi chiamiamo nat, che è tipo una piccola coperta.
Ho attraversato foreste equatoriali, ho visto le ossa umane sparse per strada, le guerre, le città bruciare. Mi sono vista sparare addosso quando hanno aperto il fuoco sui mezzi dove viaggiavamo.
Arrivando in Libia, che all’epoca era molto tranquilla, pensavo di trovarmi in un Paradiso terrestre: c’era subito un tetto pronto per te e un lavoro. Ma poi anche lì è arrivata la guerra, e quella libica è stata davvero indescrivibile. Ma non pensavo ancora di arrivare in Italia, anche perché ho sempre avuta una maledetta paura di attraversare il mare.
Noi stavamo a Cufra, e avremmo dovuto raggiungere Tripoli, dove c’erano degli aerei gratuiti per tornare ciascuno nel proprio Paese. Il Paese però era diviso tra forze rivoluzionarie e soldati del governo, abbiamo dovuto attraversare di nuovo il deserto. 21 giorni, tre dei quali senza cibo né acqua, tanto che siamo arrivati a bere la nostra urina. La verità è che ci eravamo persi, e ci hanno ritrovati solo i soldati di Gheddafi, che inizialmente ci hanno sparato, perché il nostro autista non voleva fermarsi al loro alt. Solo dopo si sono resi conto delle nostre condizioni e ci hanno dato da mangiare e da bere, mostrandoci la strada per raggiungere un altro villaggio, Sabha.
Ovviamente, quando alla fine siamo arrivati a Tripoli non c’erano più aerei per noi, la guerra era nel suo culmine. Ci rimaneva solo la strada per il mare. Dovevamo pagare per salire sul barcone, e noi non avevamo più soldi. Abbiamo lavorato due mesi nonostante la guerra e, raggiunta la cifra, abbiamo pagato gli scafisti per attraversare il Mediterraneo. Prima della partenza ci hanno tenuti due settimane in una sorta di campo militare, dove c’erano solo riso bianco e bidoni di acqua. Nessuno era autorizzato a uscire fino alla partenza.
Arrivato il giorno della partenza, ci hanno sequestrati, ci hanno chiesto di buttare i documenti, e i vestiti che ci eravamo portati dietro. Potevamo portare solo quelli che già indossavamo, nient’altro. Siamo saliti su questa specie di barca da pesca, eravamo in 800, e siamo partiti la mattina del 21 giugno 2011, arrivando in Italia il 22 pomeriggio. Siamo stati per più di un giorno uno sopra l’altro, tutti piegati, tanto che molti, dopo poco, hanno iniziato a vomitare, me compresa. Ero incinta, e non lo sapevo.
Nel viaggio sono stata malissimo, non potevamo bere né mangiare, sentivo alcuni dei miei compagni di viaggio dire che portavo sfortuna e che avrebbero dovuto buttarmi in mare se non volevano attirare lo spirito della morte. Sono rimasta solo perché un altro gruppo mi ha difesa, ma sono stata talmente male che, alla fine, sono svenuta. Mi hanno detto che sono stata soccorsa con l’elicottero, mi sono svegliata all’ospedale, con un uomo accanto che mi ha detto che ero a Lampedusa e che ero incinta di 3 mesi!
Così è iniziata la mia avventura in Italia, fatta di alti e bassi, però l’importante è che oggi io ce l’ho fatta“.
Evelyne nei suoi video parla molto di integrazione, fa informazione, perché per lei il punto di partenza, per superare il razzismo, è proprio quello.
“Credo che quello che le persone non sopportano sia legato alla differenza culturale, o meglio alla diversità. Io sono congolese, la mia cultura è differente rispetto a quella italiana sotto molti aspetti. Un esempio? Per noi è considerato scortese guardare una persona che, per qualche motivo, ha più autorità di te negli occhi. Lo facciamo con le forze dell’ordine, con gli insegnanti, o semplicemente con le persone più adulte. Lo vediamo come un segno di sfida. Qui in Italia, invece, è considerato maleducato non guardare negli occhi, ed è proprio questa la diversità culturale di cui parlo e che, se non è spiegata, genera malinteso, e fa sì che si creino antipatie.
Un’altra cosa banale, da me la bellezza è morbidezza e rotondità, quindi non si dice ‘che bello, sei magra’, perché è un’offesa, in Italia invece è il contrario. Io inizialmente pensavo di fare un complimento dicendo a una persona ‘Sei ingrassata’, invece ero presa per maleducata, ma nessuno me lo diceva, le persone si limitavano a covare del risentimento.
Inutile poi dire che ci sono anche scelte politiche fatte proprio per giocare sull’emotività delle persone, così da guadagnare consensi. Mischiate queste cose tutte insieme ed ecco trovati i problemi che impediscono la convivenza pacifica“.
Cosa diresti a un razzista per convincerlo del suo sbaglio?
Sicuramente il primo motivo è che esiste solo una razza, quella umana. E poi, siamo stati creati per completarci, le nostre terre non possono vivere l’una senza l’altra, ma dobbiamo capire che la diversità è ricchezza, non divisione.
Gli direi che dal razzismo si guarisce, perché è una convinzione basata sull’ignoranza, e dall’ignoranza si può guarire, informandosi e acculturandosi.
Sfogliate la gallery per leggere altre cose che ci ha detto Evelyne.
Abbiamo intervista Marilena Delli Umuhoza, una scrittrice il cui libro si chiama Negretta, che è l’appellativo con cui veniva chiamata e con cui viene chiamata ancora sua figlia, pur essendo nate entrambe in Italia. Tu quanto razzismo hai sperimentato sulla tua pelle?
In tutta la sincerità per la prima volta mi sono sentita diversa proprio qui, in Italia. Finché ero in Africa eravamo tutti uguali, certo i bianchi arrivavano, ma non mi sono mai sentita così. Ho iniziato a percepire questa cosa negli sguardi, che poi diventano parole, che spesso diventano atti.
All’inizio senti che qulacuno ti guarda perché sei ‘diversa’, sul pullman, in giro per strda, quando ti avvicini per chiedere un indirizzo e vedi una persona spaventarsi e scappare. Ho vissuto tante volte queste situazioni, ho aperto il mio canale YouTube proprio per denunciare un episodio in cui mi è stato detto ‘lei è una negra che risponde’. Questa parola mi fa davvero arrabbiare, soprattutto perché chi te lo dice pensa che, siccome sei nero, allora devi abbassare la testa e accettare tutto, e a me non va giù.
Spesso mi rimproverano questa cosa, ad esempio quando arrivi in un posto di lavoro, magari sei l’unica nera e allora pensano che ti possono comandare, così quando rispondo a tono le persone rimangono perplesse, come a dire ‘Cosa pensa di essere, è una nera!’. Io le ho sentite queste frasi.
Il mio obiettivo su Tik Tok è proprio riuscire a fare da mediazione, ad avvicinare le culture diverse in modo da poter avere un confronto, perché finché ci si lamenta e basta, senza un confronto con chi è dall’altra parte, alla fine si ha un monologo.
La discriminazione e il razzismo si combattono partendo dall’informazione, perché spesso è il malinteso che ci porta a tirare certe conclusioni. Dando invece più informazioni, spiegando come stanno le cose, quello che non viene detto in tv, la realtà che solo chi ha passato può raccontare, questo può aiutare a cambiare sguardo sull’immigrazione.
In base a quello che sta succedendo negli USA, temo che possa succedere anche da noi se non ci mettiamo in mente di avere un’immigrazione strutturata e non si cambia modo di affrontare questa immigrazione. Se continuiamo a ragione solo per ottenere consensi politici, se non c’è un’accoglienza strutturata e luoghi dove si possono imparare leggi e costumi adeguati, ma anche un’informazione adeguata per avvicinare le culture, sì, può succedere la stessa cosa.
Evelyne ha 32 anni, è nata in Congo. Il suo profilo Tik Tok conta più di 14 mila followers.
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