Femminismo islamico: perché si può portare il velo senza essere sottomesse
Forse non tutti sanno che esiste anche un femminismo islamico, che non è nato recentemente e che lotta anche per il diritto delle donne a indossare il velo.
Forse non tutti sanno che esiste anche un femminismo islamico, che non è nato recentemente e che lotta anche per il diritto delle donne a indossare il velo.
Spesso pensiamo al mondo islamico come a un microcosmo fermo, per mentalità e cultura, a diversi secoli fa, dove il patriarcato la fa ancora fermamente da padrone e le donne vivono relegate in una subordinazione sociale oppressiva e immutabile. Ma le cose stanno davvero così?
Oltre a interrogarci su quanto sia realmente diversa la nostra società da quella musulmana che, secondo alcuni, è tanto criticabile, dovremmo chiederci se il ruolo delle donne nell’Islam – ovviamente ci riferiamo a quello moderato e non al mondo integralista – sia davvero tanto marginale. Se lo pensate, forse è perché non avete mai sentito parlare del femminismo islamico.
A partire dagli anni ’80 e ’90 si è sviluppato un ampio movimento di rivendicazione dei diritti delle donne nel mondo islamico, che non si differenzia dai femminismi occidentali per storia ed evoluzione.
Come per il mondo occidentale, i movimenti di emancipazione femminile nel mondo arabo compaiono già alla fine del XIX secolo in seno alla Nahdah, un movimento di intellettuali di vario credo interessati alla rinascita sociale e culturale del mondo arabo. In questo periodo figura chiave del movimento fu l’avvocato egiziano Qasim Amin, il cui testo Tharir al-mar’a (la liberazione della donna) è considerato il primo grande scritto femminista del mondo arabo: secondo Amin, infatti, le donne dovevano essere educate per poter contribuire nel migliore dei modi alla vita pubblica e privata dello stato moderno, arrivando all’abolizione dell’uso del velo, considerato il massimo ostacolo all’emancipazione femminile e al progresso dello Stato-nazione.
Ai tempi di Amin ci furono donne, come Malak Hifni Nasif o Mayy Ziyada, impegnate nel processo di emancipazione, ma sarà solo negli anni ’20 che dai singoli attivismi si passerà a forme politiche organizzate. Nel 1923 si forma in Egitto, sotto la guida di Hoda Shar’awi, l’Unione Femminista Egiziana, prima organizzazione esplicitamente femminista del Paese, seguita un anno più tardi, in Palestina, dall’Associazione per la rinascita delle donne, poi dall’Associazione delle Signore Arabe.
Nel caso islamico femminismo e anticolonialismo, emancipazione femminile e liberazione nazionale erano discorsi profondamente connessi e imprescindibili l’uno dall’altra.
Sotto la guida di Hoda Shar’awi le donne iniziarono a chiedere – e ottenere – il diritto all’istruzione, al voto e la riforma del codice dello statuto personale, con gesti estremamente significativi come quello della stessa Hoda Shar’awi e Sizah Nadarawi che, tornate in patria dal IX congresso dell’International Woman Suffrage Alliance, si tolsero il velo scendendo dal treno.
Negli anni ’50 e ’60 il movimento femminista venne marginalizzato, passando in secondo piano rispetto all’espansione del socialismo arabo. Fu negli anni ’60 che il femminismo islamico conobbe una nuova fase di rinascita, in Marocco, in seno ai movimenti studenteschi e sindacali e ai partiti progressisti.
La primavera araba generalmente indica quella serie di insurrezioni cominciate con la rivolta del 17 dicembre 2010, quando, in seguito alla protesta estrema del tunisino Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco dopo i maltrattamenti subiti da parte della polizia, molti altri seguirono la sua ribellione dando vita alla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini, che ebbe un effetto domino capace di propagarsi ad altri Paesi del mondo arabo e della regione del Nord Africa.
Nel solo 2011, quattro capi di Stato furono costretti alle dimissioni, alla fuga, o in alcuni casi alla morte: in Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali (14 gennaio 2011), in Egitto Hosni Mubarak (11 febbraio 2011), in Libia Mu’ammar Gheddafi, catturato e ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011 dopo una fuga da Tripoli a Sirte, e in Yemen Ali Abdullah Saleh (27 febbraio 2012).
Ma cosa c’entra la primavera araba con il femminismo islamico? Negli ultimi anni il fenomeno della “primavera araba femminile” o “primavera rosa” si è diffuso, a indicare un movimento composto da donne musulmane che intendono rivendicare la parità rispetto agli uomini nella società. Da qua, anche la richieste di una rilettura e di una reinterpretazione dei testi sacri, che ponga l’attenzione sulle donne e sul loro ruolo sia nella società che nella famiglia.
Con la rilettura di genere del Corano il femminismo islamico rivendica diritti che vanno dal ricoprire il ruolo di mufti – il più alto ufficiale della legge religiosa islamica sunnita di un paese musulmano – al riformare codici e leggi che relegano la donna in una condizione di inferiorità.
In ogni caso, va detto che occorre fare una distinzione necessaria, per quanto riguarda il testo sacro, tra testo stesso ed esegesi, ovvero l’interpretazione che ne è stata fatta nella storia.
A essere causa della discriminazione delle donne non è il Corano, ma l’interpretazione che le società patriarcali ne hanno dato, creando una tradizione sessista. Proprio per questo il femminismo islamico, sin dagli albori, si è impegnato per compiere un’opera di decostruzione e ricostruzione di queste interpretazioni profondamente maschiliste, rileggendo i versetti del Corano secondo un’altra prospettiva, quella di un testo polisemico, suscettibile di varie interpretazioni, che non deve essere letto solo con citazioni singole estrapolate dal contesto.
È chiaro che questo aspetto distingua in toto il femminismo islamico dai movimenti dei femminismi occidentali, distanti dalla dimensione religiosa.
Secondo il femminismo islamico, la reinterpretazione del Corano ne rivelerebbe il messaggio di sostanziale uguaglianza tra donne e uomini, che si evince in passi come “in verità non farò andare perduto nulla di quello che fate, uomini o donne che siate, che gli uni sono come gli altri” (Corano, III, 195), ma anche la modernità del testo rispetto a temi controversi come poligamia o divorzio, modernità che è evidente se pensiamo alla collocazione temporale del Corano.
Passiamo alla questione che più di tutte rimarca la distanza tra occidente e mondo islamico, quella del velo, vissuto come il simbolo più evidente della subordinazione femminile, dimenticando, ad esempio, che fino a un paio di generazioni fa neppure le donne italiane potevano uscire a capo scoperto, che le donne in visita dal Papa devono indossare qualcosa che copra loro il capo, o semplicemente alle nostre suore.
Anche il velo, come il Corano, è suscettibile di una doppia interpretazione, secondo il femminismo islamico: può infatti essere indossato per obbligo, ma può anche essere scelto, per costume, per moda, o per affermazione di una propria identità che faccia distinguere rispetto al modello occidentale di esposizione, o proteggere dalla sessualizzazione del corpo femminile o dallo sguardo maschile.
Sveva Basirah Balzini, femminista musulmana, in questo articolo spiega:
Il velo può essere molte cose. Per me un’espressione della mia fede, per, ad esempio una donna iraniana un’imposizione, per una malese una tradizione, per una donna curda un segno di appartenenza alla propria comunità e così via.
Può essere tutto e niente e, anche se si rilevano delle tendenze differenti tra località e località, dovremmo sempre interrogare la volontà del singolo. Da un punto di vista islamico il velo non è una imposizione, né un gesto di sottomissione all’uomo. Per alcuni interpreti, però, può essere un segno di sottomissione a Dio… Ma io continuo a vederlo come un segno distintivo, come è chiaro nel Corano. Credo che il femminismo possa affrontare la questione del velo in termini di autodeterminazione, e questo è un buon modo per comprendere le battaglie di chi lo vuole togliere e di chi desidera metterlo. Chiaramente in paesi dove la legge o la morale lo impongono, sarà molto più viva la lotta per per toglierlo
Dobbiamo supportarci l’un l’altra dandoci visibilità e le musulmane devono ricordare che la la fede è una questione intima e privata e che, islamicamente parlando, sarebbe buono è giusto spogliare il velo dalle sue interpretazioni maschiliste. Lottiamo perché il corpo delle donne non sia più uno strumento politico (il velo lo è senza meno)”.
La struggenza di una donna sorridente in un sacco verde della differenziata.
Così Nadia Riva, storica femminista fra le fondatrici, negli anni Ottanta, del circolo Cicip & Ciciap, ha salutato il ritorno a casa di Silvia Romano, la volontaria rapita nel 2018 in Kenya e liberata, a maggio 2020, dopo 18 mesi. La “colpa” di Silvia, aver fatto rientro in Italia da donna liberamente convertita all’Islam, che ha scelto di chiamarsi Aisha dopo il cambio di religione, e vestita con un abito che qualcuno ha definito “tipico delle donne somale”, altri un “abbigliamento imposto dai gruppi terroristi somali che hanno il potere nel Paese”.
Più della gioia per il ritorno a casa di una figlia, di una ragazza di appena venticinque anni che ha solo dichiarato di essere stata “trattata con umanità” dai suoi carcerieri, la notizia della liberazione di Silvia Aisha Romano ha riacceso un dibattito quantomai aspro, anche all’interno dei gruppi femministi.
Loredana Lipperini, scrittrice e giornalista voce di Radio 3, a Rep ha spiegato:
Non c’è niente di nuovo: l’abitudine a giudicare le donne da come sivestono è vecchia, vecchissima, probabilmente inestirpabile. Non parlo degli odiatori. Non parlo delle donne e degli uomini di destra o islamofobi o quel che vipare a voi, e dell’oscenità (prevedibile) che stanno vomitando in questi giorni (come avvenne in precedenza per altre donne rapite e rilasciate: diciamo pure che tornare da un rapimento è cosa non gradita a certuni). I rapiti, li preferiscono morti (meglio ancora se rapite). Parlo di donne e uomini che conosco, di fama se non dipersona, e che blaterano sul ‘sacco della spazzatura verde’ indossato da questaragazza al momento dell’arrivo in Italia, sulle domande sulla sua gravidanza, sututto il soccorrevole, e comunque feroce, pettegolezzo con cui ci si sente in dirittodi parlare di lei come se si stesse commentando Sanremo.
Critica verso la battuta di Nadia Riva anche Pinuccia Barbieri della Libreria delle Donne di Milano:
Non sono mai stata a favore di chi impone il burqa alleragazze, ma non sono per niente d’accordo col tono di questo post. Credo che Silvia Romano vada rispettata nelle sue scelte e per la difficile esperienza che ha vissuto. Prima di giudicarla, bisogna darle il tempo di recuperare le forze e di stare con i suoi cari. Grave che un attacco del genere in un momento di polemiche già così accese venga proprio da un’altra donna, che forsevoleva solo provocare e far discutere, ma in realtà crea l’effetto opposto. Sembrache Silvia sia da processare, invece che da difendere.
La difesa di Riva arriva puntuale, parla di voluta provocazione, spiega che il suo non era un attacco alla persona di Silvia Aisha Romano.
Io ho avuto questo conato di tristezza e di dolore, vedendo questa giovane sorridente messa in un sacco come a volerla eliminare, cancellandone l’identità. Questo solo volevo dire, non attaccare lei, poi detto da me, evidentemente non mi conoscono come persona e come storia. Mai nella vita mi sarei sognata di attaccare la ragazza […] Io vedo solo questa poveretta, Silvia Romano, messa sotto dal solito ego maschile che vuole cancellare la donna pronta per essere buttata nella spazzatura. Mi sono sentita male, quando l’ho vista scendere dall’aereo vestita nel sacco che i terroristi pretendono che le loro donne mettano per cancellarne ogni individualità.
Si vede che quelle che mi criticano sono donne che non hanno nessuna pratica della critica femminista. Io non me ne pento, l’ho anche messo sulla pagina delle biblioteca delle donne, su Donne per il femminismo, su Antiviolenza. Alcuni me l’hanno rifiutato con una malafede inquietante. Questo è sintomo di una colonizzazione maschilista che diventa più importante di tutto. Non sono razzista, ma non posso pensare che la sua scelta sia autonoma. Simbolicamente ci vedo tutto il disastro delle donne che ancora subiscono. Molte con la scusa di difendere tutti gli oppressi della terra, compreso i terroristi, sbagliano. Io difendo le donne e chi le tocca per me va fuori dal mio raggio di comprensione.
La polemica, e la diversità di opinioni, insomma, non sembrano destinate a esaurirsi.
Sfogliate la gallery per conoscere alcune delle più importanti e famose femministe dell’Islam.
Malak contribuì in maniera importante alla promozione della causa dei diritti della donna, sottolineando il fatto che aspirazioni e valori delle donne egiziane non fossero per forza gli stessi di quelle occidentali.
Contraria alla poligamia, sostenne che gli uomini e le donne dovessero godere del diritto di divorziare, che ci dovesse essere un controllo sull’età per contrarre matrimonio, per evitare le unioni precoci e forzate, e che l’amore dovesse essere alla base delle relazioni.
Scrittrice e poetessa libanese-palestinese, si occupò del neonato movimento di emancipazione della donna, partendo dal presupposto che le donne che reclamavano uguaglianza non fossero obbligate a rinunciare alla propria femminilità.
Nel 1921, Mayy partecipò a un congresso dal titolo “Il fine della vita”, invitando le donne arabe ad aspirare alla libertà e ad aprirsi nei confronti dell’Occidente, senza rinunciare all’identità culturale araba.
La donna che oggi più di tutte rappresenta il femminismo islamico è Sherin Khankan, diventata una delle rare imam donne. Nata da madre finlandese e da padre siriano, Sherin è sociologa delle religioni laureata a Damasco, e oggi è imam nella moschea Mariam a Copenaghen. Combatte per un Islam più liberale che possa trovare punti d’incontro con i valori occidentali.
Negli anni ’80 ha pubblicato il libro Le donne del Profeta, nel quale racconta quanto le donne siano state caratterizzanti per la storia islamica, partendo dalla figura di Aisha, la sposa più amata dal Profeta che, dopo la morte di lui, avrebbe guidato un esercito contro il quarto califfo.
Avvocata tedesca e femminista musulmana nata a Istanbul, in Turchia, di origine curda – turca, ha aperto la moschea Ibn Ruschd-Goethe nel 2017, unica moschea liberale in Germania in cui uomini e donne pregano insieme e le donne possono assumere il ruolo di imam. L’autorità religiosa turca e il Consiglio egiziano di Fatwa dell’Università Al-Azhar hanno condannato il suo progetto, e Seyran ha ricevuto diverse minacce di morte.
Nell’ottobre 2019 ha vinto il premio Università per i diritti umani dell’Università di Oslo.
Le sue principali pubblicazioni sono state Feminism in Islam: Secular and Religious Convergences (Oneworld Press, Oxford, 2008), Opening the Gates:An Arab Feminist Anthology (Indiana University Press, 2004), Feminism, Islam, and Nation: Gender and the Making of Modern Egypt (Princeton University Press, 1995)
Asma Barlas si è concentrata, in particolare, sull’esegesi patriarcale del Corano, esplorando l’argomento nel libro Believing Women in Islam: Unreading Patriarchal Interpretations of the Qur’an .
Rifiuta la designazione delle sue opinioni e interpretazioni dell’Islam come “femminismo islamico “, a meno che, ha spiegato, con il termine non ci si riferisca a “un discorso di uguaglianza di genere e giustizia sociale che cerca di praticare i diritti e la giustizia per tutti gli esseri umani nella totalità della loro esistenza, attraverso il continuum pubblico-privato”.
È un’antropologa legale nata in Iran, specializzata in diritto islamico, genere e sviluppo. È esperta di diritto di famiglia islamico e donne nel mondo musulmano.
Partecipa spesso a programmi radiofonici e televisivi in tutto il mondo, ha preso parte a diversi documentari televisivi sull’Iran, partecipa a tavole rotonde e progetti negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in altri Paesi, e ha pubblicato vari lavori.
È leader dell’organizzazione non governativa malese, attivista e femminista musulmana. È stata a capo dell’organizzazione della società civile Sisters in Islam per oltre vent’anni, prima di dimettersi.
Amina è un’afroamericana convertitasi all’Islam negli anni ’70, e oggi una delle figure preminenti del femminismo musulmano.
Docente di studi islamici all’università del Commonwealth della Virginia, nel marzo 2005, richiamandosi alla figura coranica di Umm Waraqah, ha guidato la preghiera del venerdì in una chiesa anglicana di New York di fronte ad un’assemblea mista di fedeli. Il gesto ha fatto scandalo perché, ancora adesso, alle donne è consentito guidare la preghiera di altre donne, ma non di gruppi di uomini o misti. Il suo esempio è stato seguito, dopo qualche mese, anche da Asra Nomani.
È autrice di due libri, Standing Alone in Mecca: An American Woman’s Struggle for the Soul of Islam e Tantrika: Traveling the Road of Divine Love, oltre che della Carta islamica dei diritti delle donne nella stanza da letto e nella moschea e dei 99 precetti per aprire i cuori, le menti e le porte nel mondo musulmano.
Nel novembre 2003 Nomani è stata la prima donna nella sua moschea della Virginia Occidentale a chiedere di poter pregare nella sala principale, riservata agli uomini. Poi ha organizzato la prima preghiera pubblica negli Stati Uniti di un gruppo promiscuo di fedeli guidata da una donna, proprio lei. Quel giorno, il 18 marzo del 2005, ha esordito così:
Stiamo affermando i nostri diritti come donne nell’Islam. Non accetteremo più le porte di servizio o l’ombra alla fine della giornata, noi saremo guide del Mondo islamico. Noi stiamo guidando l’Islam nel XXI secolo e reclamiamo il diritto a parlare che il Profeta ci riconobbe 1400 anni fa.
Cosa ne pensi?