Giorno della Memoria: cosa successe quel 27 gennaio 1945 ad Auschwitz
L'orrore dell'Olocausto rivive ogni anno nel Giorno della Memoria. Ogni 27 gennaio, si cerca di non dimenticare la banalità del male che guidò i nazisti.
L'orrore dell'Olocausto rivive ogni anno nel Giorno della Memoria. Ogni 27 gennaio, si cerca di non dimenticare la banalità del male che guidò i nazisti.
Il 27 gennaio, nelle nazioni che fanno parte dell’Onu, ricorre il Giorno della Memoria. Si tratta di una giornata di commemorazione in onore delle vittime dei campi nazisti: ebrei in primis, ma anche rom, testimoni di Geova, disabili, omosessuali, prostitute, dissidenti politici.
Olocausto, Shoah, «soluzione finale»: venne chiamato in molti modi quello che fecero i nazisti, ma questo non cambia la sostanza. Si trattò di un momento terribile, forse il più oscuro della storia dell’Occidente.
Il Giorno della Memoria ha lo scopo di preservare il ricordo di quei fatti terrificanti, affinché non accadano mai più. È stata l’Italia – sotto la Presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi – a istituire la commemorazione pochi anni prima che lo facesse l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma il succo non cambia. Gli Olocausti sono accaduti e continuano a succedere, magari non nella stessa forma e con gli stessi numeri, ma bisogna tenere alzata la guardia. In Italia, prima dell’istituzione, ci fu una diatriba sulla scelta della data.
Alcuni proposero infatti il 16 ottobre, ossia l’anniversario del rastrellamento nel ghetto di Roma. Quel rastrellamento fu particolarmente duro per la popolazione italiana: qui gli ebrei erano perfettamente integrati nel tessuto sociale, e non solo a Roma – fin dai tempi di Federico II, gli ebrei poterono godere anche di leggi speciali che ne preservarono le tradizioni, a differenza di quanto accadde nei confronti dei musulmani. Roma (e l’Italia) fu uno dei luoghi in cui le leggi razziali si manifestarono nella loro assurdità palese.
Furono i russi a liberare Auschwitz, il 27 gennaio 1945. Furono i sovietici a scoprirne per primi l’orrore – anche se dei sentori c’erano stati da parte di altre nazioni alleate, come il Regno Unito. Fino ad allora, nessuno aveva però mai avuto le prove di quella che prese il nome di «soluzione finale». Alcuni giorni prima, i nazisti avevano battuto in ritirata da Auschwitz, portando con sé un gran numero di superstiti e costringendoli alle cosiddette «marce della morte», ossia delle marce forzate a piedi, nel freddo della Mitteleuropa per molte centinaia di chilometri, che portava inevitabilmente alla morte di chi vi era costretto.
Oggi Auschwitz è un museo degli orrori. Le persone possono visitarlo e respirare tutto ciò che di malvagio accadde in quei luoghi. Ci sono stanze piene di occhiali – tradizionalmente, fin dal Medioevo, un “accessorio” indossato dagli ebrei e che veniva percepito dagli altri in maniera dispregiativa perché legato al concetto di usura – un’attività che agli ebrei nel Medioevo era consentita dalla legge e i cui retaggi sono giunti fino a noi (per chi ha dimestichezza con le decorazioni delle architetture barocche, non sarà sfuggita la presenza di effigi che ritraggono uomini con occhiali e denti appuntiti: non sono vampiri ma usurai).
Nelle altre stanze si possono vedere le docce, che venivano riempite con lo Zyklon B, il gas che asfissiava le persone nel campo, che poi venivano bruciate nei camini – anche questi visitabili. E ci sono le stanze con i capelli – che venivano utilizzati per i cuscini, dopo essere stati tagliati a queste persone – o con le scarpe, soprattutto quelle dei bambini, una minima parte delle calzature dei piccoli che trovarono la morte in quel luogo orrorifico.
Il museo di Auschwitz e i luoghi a esso collegati – come il centro storico di Cracovia – sono la meta finale del cosiddetto Treno della Memoria, che parte in gennaio in molti luoghi d’Italia per raggiungere il campo di concentramento. Si tratta di un’iniziativa lodevole, che coinvolge in gran parte studenti di scuola superiore italiani.
A volte, quando parliamo della soluzione finale e degli orrori di guerra dei nazisti, confondiamo i concetti legati ai campi da essi creati. Ci furono 4 tipi di campi:
In tutti questi campi però, la morte era sempre e comunque perseguita dai nazisti nella maniera più virulenta possibile.
Tra le vittime celebri dei campi nazisti c’è Anna Frank, un’adolescente che ci ha lasciato una straordinaria testimonianza delle persecuzioni: il suo diario racconta dell’avvento delle leggi razziali e della speranza della salvezza della sua famiglia in un alloggio segreto ad Amsterdam – in cui invece fu scoperta e portata prima ad Auschwitz e poi a Wietzendorf Bergen Belsen, dove morì poco prima dell’arrivo dei soldati britannici. Tra le personalità internate nei campi dai nazisti ci sono lo scrittore Giovannino Guareschi, lo scrittore Primo Levi, san Massimiliano Kolbe, la senatrice Liliana Segre, lo scrittore Elie Wiesel, Mafalda di Savoia, il teologo Martin Niemoller e molti altri. Ci sono dei versi di Niemoller che sono eccezionalmente significativi di quella banalità del male che guidò i nazisti verso la Shoah:
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.
I campi nazisti furono uno dei tasselli fondamentali di quella che prese il nome di «soluzione finale». Inizialmente, i nazisti cercarono di far espatriare gli ebrei dalle nazioni da loro occupate, finché non decisero di ucciderli tutti, di realizzare un vero e proprio genocidio. Gli ebrei furono inizialmente ritenuti colpevoli della crisi economica che attraversò la Germania immediatamente la Prima Guerra Mondiale – le sanzioni imposte dai vincitori ai tedeschi provocarono una grave inflazione che umiliò fisicamente e psicologicamente la Repubblica di Weimar. Gli ebrei divennero un capro espiatorio, responsabili a un tempo dei mali del capitalismo e del comunismo. Per questo dovevano essere uccisi, derubati di tutti i loro averi, perché, come spiega uno dei personaggi di This Must Be the Place di Paolo Sorrentino:
Tutti loro avevano qualcosa.
I campi erano protetti da fili spinati elettrificati. Inizialmente qualcuno si suicidava gettandosi su essi, ma i nazisti ne erano infastiditi perché dovevano staccare la corrente per poter liberare i cadaveri dal groviglio che si generava. Così avevano trovato altri metodi. Vicino al filo spinato c’era una vedetta armata per evitare questi “scomodi” suicidi: non si poteva attraversare una linea gialla o si veniva fucilati all’istante. Così i soldati buttavano qualcosa oltre la linea o obbligavano i prigionieri a oltrepassarli, facendoli così uccidere.
L’agghiacciante ingresso di Auschwitz, da cui si accedeva direttamente dal treno. C’è un testo di una canzone di Carmen Consoli, Un sorso in più, dedicata proprio a quello che i prigionieri nei campi erano costretti a subire nel viaggio della morte e una volta arrivati a destinazione. Ne condividiamo alcuni stralci:
Ricordo il freddo massacrante i timidi lamenti della mia gente
ammassati stipati dentro un treno merci
due giorni e due notti senza dormire
[…]
Ricordo il freddo massacrante il giorno che
perdemmo per sempre i nostri figli
affamati assetati privati dei nostri vestiti
ed era come ingoiare vetro
[…]
Ricordo il freddo massacrante il timore di affondare
in un letto di carboni ardenti
quale logica o legge di vita potrà mai spiegar
la diabolica impresa di quegli uomini eletti.
Il vagone di uno di quei treni bestiame utilizzati dai nazisti per stipare potenziali prigionieri.
In questa stanza avvenivano le cremazioni dei corpi.
Qui avvenivano delle decisioni importanti sulla vita e la morte dei prigionieri. Chi si ammalava o diventava troppo gracile di stenti era mandato subito alle docce delle camere a gas. Ad Auschwitz venivano effettuati – come in altri campi – esperimenti genetici di varia natura.
I prigionieri indossavano tutti quest’uniforme a righe con il numero di matricola. Vi era cucito un triangolo, di colore diverso in base alla tipologia del prigioniero:
Nel museo che Auschwitz è oggi diventato, ci sono molte foto che ricordano i volti e i nomi di chi ha perso la vita in quel luogo.
Ai cadaveri venivano tolte le protesi. Disabili e malati erano mandati immediatamente alle camere a gas.
Qui venivano stipati i prigionieri per la notte.
Una vecchia confezione di Zyklon B.
Le valigie di chi ha compiuto il viaggio senza ritorno. I superstiti hanno fatto ritorno alle loro case anche dopo anni, dato che tornarono a piedi e molto spesso senza aiuti di nessun genere.
Cosa ne pensi?