E Paolo Borsellino disse: "Sono un morto che cammina"
Paolo Borsellino sapeva perfettamente quale fosse il suo destino. Tanto che spesso si definiva, senza paura, "un morto che cammina".
Paolo Borsellino sapeva perfettamente quale fosse il suo destino. Tanto che spesso si definiva, senza paura, "un morto che cammina".
Poche settimane dopo l’attentato che costò la vita a Giovanni Falcone, a Capaci, il 23 maggio del 1992, Paolo Borsellino continuava il suo lavoro di magistrato, nel dolore per la perdita dell’amico e collega, ma soprattutto con una consapevolezza: quella di essere, come lui stesso spesso si definiva, “un morto che cammina”.
C’era, in queste poche parole, tutta la serena accettazione di un destino che il magistrato siciliano sapeva essere per sé ineluttabile, con la mafia che la faceva da padrone devastando l’intera isola di Sicilia e le istituzioni forse latitanti (fin troppo). Il pensiero di un uomo che, conscio di avere una missione, riteneva il proprio mestiere più importante della paura.
Lo disse nel corso di un’intervista a Lamberto Sposini, qualche tempo dopo la strage di Capaci, quando il giornalista gli chiese se si considerasse un “sopravvissuto”:
Ninni Cassarà mi disse, mentre ci recavamo sul luogo del delitto Montana, nel 1985: ‘Siamo dei cadaveri che camminano”.
Beppe Montana era un poliziotto della squadra mobile di Palermo, ucciso il 28 luglio 1985; Cassarà, poliziotto anch’egli, avrà la stessa sorte una settimana dopo, il 6 agosto.
Ma Borsellino quella frase la ripeté anche a un giovanissimo Salvo Sottile, sempre nel 1992, quando il reporter palermitano lo seguiva da un capo all’altro della città:
Borsellino mi chiese perché fossi sempre di corsa – ha raccontato anni dopo – e io gli feci la stessa domanda. Ma lui mi rispose ‘Per me è diverso. Io sono un morto che cammina’.
Del resto, è cosa ormai nota che il magistrato, dopo una segnalazione contenuta in un rapporto dei Ros, disse
Il tritolo è arrivato anche per me, lunedì scorso.
Questa consapevolezza, però, non lasciava il giudice nell’angoscia, ma quasi nell’attesa. Sapeva perfettamente di essere un obiettivo, ma non intendeva tirarsi indietro e lasciar vincere la mafia. Tanto che, dopo la sua morte, nell’attentato di via D’Amelio, il 19 luglio del ’92, i figli hanno rivelato delle cose importantissime. Il figlio Manfredi, ad esempio, in una lunga lettera contenuta nel libro Era d’estate di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi, ha spiegato che fu la sorella Lucia a voler ricomporre i resti del padre.
Mia sorella Lucia […] – scrive Manfredi – ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione, ha intravisto il solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.
Ci sono però altri dettagli che hanno lasciato i figli perplessi: come l’assenza dell’agenda rossa, ad esempio, un quaderno che riportava le annotazioni del magistrato relative al proprio lavoro e che naturalmente la sua prole non conosceva. I figli sono certi che il padre l’avesse con sé durante l’attentato: ai famigliari fu restituito tutto, tranne quella. Che cosa c’era scritto?
Il giorno dopo, Borsellino avrebbe dovuto incontrare i colleghi di Caltanissetta per l’indagine sulla strage di Capaci, ma non fece, ovviamente, in tempo. Gran parte dei dettagli di quella giornata e e dei giorni successivi furono riportati dalle maggiori testate italiane come Repubblica.
La famiglia Borsellino aveva trascorso una giornata tranquilla prima del momento fatale. Il magistrato fece anche il bagno, e ripose il costume nella valigetta che poi portò con sé in automobile. Lucia raccontò che cosa contenesse la valigetta del padre, come il costume da bagno ancora umido che fu restituito alla famiglia. Mancava l’agenda rossa, c’erano le altre.
Quando l’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera ci ridiede la borsa – aggiunge Manfredi in relazione proprio all’agenda rossa – e vedemmo che l’agenda non c’era e chiedemmo conto della cosa, si irritò molto. Sembrava che gli interessasse solo sbrigarsi e che gli stessimo facendo perdere tempo. Praticamente disse a mia sorella Lucia che l’agenda non era mai esistita e che farneticava. Usò dei modi a dir poco discutibili.
La moglie di Paolo Borsellino testimoniò fornendo la sua versione alla Procura di Caltanissetta. Lucia raccontò però che un alto ufficiale dei Carabinieri, Antonio Subranni, attribuì alla donna il morbo di Alzheimer – una malattia che vede tra i sintomi la perdita parziale della memoria.
Mia mamma era malata di leucemia ed è stata lucida fino alla morte.
Ha però spiegato Lucia.
Oggi Manfredi è un dirigente di polizia, una carriera che non può non essere stata influenzata dal padre:
Mi piace pensare – conclude nella lettera – che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro, che nel suo piccolo serve lo Stato e i propri concittadini, come in una dimensione ben più grande e importante faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
Lucia Borsellino, ricomponendo i resti del padre Paolo non poté fare a meno di scorgere il suo sorriso tanto caratteristico sul volto.
Fu così che trovò la forza per dare un esame importante all’università e andare avanti nella vita.
La famiglia Borsellino trascorse una giornata insieme prima dell’attentato. Sarebbe stata un’estate normale, ma fu l’estate più nera per tutta l’Italia.
Non venne trovata, in barba alle testimonianze dei famigliari, l’agenda rossa del magistrato.
E sono tanti i dubbi che si rincorrono da quel luglio 1992.
Le testimonianze della moglie, oggi scomparsa, e dei figli di Borsellino hanno aggiunto dei tasselli inediti a ciò che si sapeva.
Amare la giustizia, difendere i deboli, ma soprattutto trovare la forza di farlo a costo della vita.
Cosa ne pensi?