Di artisti dannati, diventati con le loro vite da film dall’epilogo tragico e prematuro vere e proprie icone per intere generazioni la musica è piena, da Jimmy Hendrix passando da Amy Winehouse fino al leader dei Nirvana, voce del grunge anni ’90, Kurt Cobain.
Proprio il decennio che diede nuova vita al punk e portò sulla scena il cosiddetto Seattle sound, ovvero quel rock alternativo che mescolava diversi stili e sonorità dichiarandosi come portavoce di una generazione di post-adolescenti arrabbiata e ribelle, ma ancora indecisa su cosa diventare, fu anche quello in cui Jeff Buckey, sorriso sornione e sguardo trasognato che sbucava da una cascata di riccioli scuri, incantò il pubblico e la critica, che definì il suo primo (e unico) grande lavoro, Grace, come un “capolavoro romantico”.
Se ancora oggi la sua versione di Hallelujah, di Leonard Cohen, appare come uno di quei pezzi regalati all’umanità, dal riff inimitabile e con un’interpretazione che tocca tutte le corde dell’anima, anche la figura di Jeffrey Scott Buckley è stata suo malgrado consegnata all’immortalità da una storia drammatica, quasi che lo scotto da pagare per avere un posto assegnato nell’Olimpo dei miti passi inevitabilmente per un destino tragico con cui scontrarsi.
Era il 29 maggio del 1997 quando Jeff e il suo roadie, Keith Foti, escono dalla casa del primo, quella in North Rembert Street che il cantante occupava da marzo e che, come disse una volta la fidanzata, Joan Wasser, descrivendola, era “tutt’altro che piccola: riesce comodamente a ospitare l’enorme ego di Jeff”, per recarsi negli studi di registrazione.
Dalla casa a Young Avenue, dove c’è la sala prove, ci vogliono appena dieci minuti, ma i due forse si perdono, forse vogliono fare una deviazione. Jeff propone a Keith di andare al Wolf River, perché ha voglia di fare un bagno. La riva del fiume è piena di detriti, rifiuti e pezzi di vetro, perciò Jeff entra in acqua vestito, mentre il roadie gli raccomanda di non allontanarsi troppo.
“Il primo è divertente, è il secondo che…”, Foti sente Jeff sussurrare con voce affievolita queste poche parole sconnesse, e non ne afferra il significato. È solo preoccupato del fatto che il cantante non si allontani troppo da riva. Gli suggerisce di tornare indietro, lui, come racconta un articolo di XL, lo ignora, canta il successo dei Led Zeppelin, Whole Lotta Love.
Keith si volta un secondo e, appena torna con lo sguardo verso il fiume, non vede più Jeff. Terrorizzato, il tecnico comincia a chiamare prima a voce alta il nome dell’amico, poi fa una telefonata dopo l’altra. Alla polizia, a Joan, che in quel momento è a Boston con il suo gruppo, i Dambuilders, in cui suona il violino, al tour manager di Buckley, Gene Bowen, che nel frattempo, in aeroporto, sta accogliendo i musicisti di Jeff che sarebbero dovuti essere ospitati nella casa di North Remember Street.
“Ecco… Jeff è andato a nuotare al fiume”, dice Foti alla Wasser, che, incredula, teme fin da subito che possa essere successa una tragedia.
“Dimmi la verità. È successo qualcosa a Jeff?”, chiede. “Joan, non so come dirtelo… Jeff è sparito, sott’acqua”, è la risposta che, dopo vari indugi, Foti riesce a darle.
Già, Jeff è sparito nel nulla, in quel fiume dove lui stesso aveva voluto andare a nuotare; forse risucchiato dal gorgo creato dal passaggio di un battello nel momento stesso in cui lui si trovava nell’acqua. La polizia lo cerca, draga il fiume. Inutilmente.
Il Wolf River restituirà il suo povero corpo straziato dalla permanenza in acqua solo il 4 giugno, avvistato da un passeggero del traghetto American Queen mentre era impigliato a un albero sotto il ponte della via principale di Memphis, la Beale Street.
A permettere di identificarlo sarà il piercing dorato che Jeff portava all’ombelico; nonostante il suo manager fosse preoccupato per le mille voci che si rincorrevano sulle dipendenze di Buckley e sui suoi disturbi psichici, il bipolarismo, la psicosi maniaco-depressiva, nel suo corpo, dopo l’autopsia, non verrà trovata traccia di sostanze stupefacenti, né di alcol.
La madre, in un comunicato ufficiale, scrisse che
La morte di Jeff Buckley non è stata ‘misteriosa’, legata a droghe, alcol o suicidio. Abbiamo un rapporto della polizia, un referto del medico legale e un testimone oculare, che provano che si è trattato di un annegamento accidentale e che il sig. Buckley era in un ottimo stato mentale prima dell’incidente.
La scomparsa di Jeff nel fiume fu quindi catalogata come una drammatica fatalità, che gli fece perdere la vita a 31 anni ancora da compiere. Un tragico caso che gli regalò l’immortalità, ma che chiese il prezzo più alto da pagare.
Il leader degli U2, Bono Vox, lo definì come “a pure drop in an ocean of noise“, una goccia cristallina in un oceano rumoroso. Un modo davvero curioso, dato il tragico epilogo della sua vita, per parlare di lui, ma che, nonostante tutto, riesce perfettamente a sintetizzare la grandezza del suo lavoro. Perché Jeff, sì, è stato forse solo una goccia, ma di una tempesta perfetta: di quelle che non si dimenticano, e che restano impresse nella memoria.
Sono il classico ragazzo bianco del rock
È semplicemente musica. Sono il classico ragazzo bianco del rock. Un grande mix in cui infiliamo la roba che amiamo.
Così Jeff risponderà nel corso di un’intervista per MTV, rilasciata il 10 gennaio del ’95, in occasione dell’uscita di Grace.
Il 7 novembre 2018 è uscito Jeff Buckley. L’impressione di essere eterno, pubblicato da Chinaski Edizioni e curato da Federico Traversa, Marco Porsia e Francesca D’ancona, libro che raccoglie le tante interviste rilasciate da Jeff Buckley durante la sua vita, oltre a diversi materiali sul musicista.
Come ha cominciato a suonare
Mia nonna aveva una vecchia chitarra acustica nell’armadio – disse ancora Jeff nel corso dell’intervista per MTV – L’ho ritrovata e ho deciso di prendermela. È così che ho iniziato a suonare, con ottimi esiti, fino a quando a 13 anni non ho ricevuto la mia prima chitarra elettrica. Chitarra elettrica… Si sa come va a finire. Quando una chitarra elettrica arriva nelle mani di un ragazzino… Tutto quel potenziale lo può mandare fuori di testa per sempre. Ed è andata proprio così.
Il successo di Grace
A metà del 1993, con un passato come componente di varie band, Jeff iniziò a lavorare al disco d’esordio assieme a Andy Wallace, già produttore di Nevermind dei Nirvana.
Grace fu pubblicato il 23 agosto 1994; al suo interno, c’è anche il rifacimento del famoso pezzo Hallelujah di Leonard Cohen, definito dal TIME “eccellente interpretazione”, e incluso da Rolling Stone nella lista “500 Greatest Songs of All Time”.
Nel 1997 Buckley cominciò a lavorare a Sketches for My Sweetheart the Drunk, il secondo disco, fino all’incidente fatale del 29 maggio.
Joan ma non solo
Jeff conosce Joan Wasser il 9 luglio 1994, mentre lei si trova al Gabe’s di Iowa City con i Dambuilders per aprire il concerto della rockstar emergente della Columbia Records, il cui album di debutto, Grace, non è ancora uscito.
“Saresti disposta a darmi lezioni di violino?”, le domanda lui.
Nella vita di Jeff, però, c’è ancora Rebecca Moore, il suo primo grande amore, la sua musa, a cui, giusto mercoledì 28 maggio, un giorno prima della tragedia, Buckley aveva scritto via messaggio “Pensa a me e sorridi… Tranquilla, me la caverò… Ci vediamo dall’altra parte”.
Jeff frequenta poi anche Andria Lisle, che gestisce un negozio di dischi e ogni tanto scrive di musica ed è la sua confidente di fiducia, come Tammy Shouse, moglie di David, il miglior amico di Jeff in città, che nei giorni dopo la morte disse “Jeff mi ha raccontato di aver sognato di morire…”
Era figlio di un musicista
Jeff era figlio di Tim Buckley, songwriter morto per overdose di eroina il 29 giugno 1975.
Il suo debutto ufficiale nel mondo della musica avvenne proprio in occasione di un concerto-tributo al padre, Greetings from Tim Buckley, organizzato nella chiesa di St. Ann di Brooklyn il 26 aprile 1991. Jeff suonò I Never Asked To Be Your Mountain, un brano del padre, e Once I Was, cantando il finale a cappella a causa della rottura di una corda della chitarra. Proprio dopo questa performance, spiegò a Rolling Stone:
Non era il mio lavoro, non era la mia vita. Ma mi infastidiva non esser stato presente al suo funerale, non aver mai più potuto dirgli qualcosa. Usai quello show per dargli il mio ultimo saluto.
Un grande vuoto esistenziale
Ho 30 anni – diceva Jeff – Eppure mi sento vecchio, fuori posto.
La gente deve ricordarsi della mia musica
Non ho bisogno che la gente si ricordi di me. Voglio che si ricordi della mia musica.
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