L’Italia che cade a pezzi: dai ponti alle scuole, l’agonia del Bel Paese

L’Italia che cade a pezzi: dai ponti alle scuole, l’agonia del Bel Paese
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Abbiamo tutti ancora negli occhi le terrificanti immagini del ponte Morandi, a Genova, crollato alle 11:36 del 14 agosto 2018, delle auto volate per oltre 100 metri nel torrente sottostante, dei pezzi di autostrada letteralmente staccatisi da quello che era uno dei punti focali del capoluogo ligure, il trait d’union di un’intera città, il fulcro di una delle aree più dense di traffico, perfettamente nel mezzo tra fra il centro-levante di Genova, il porto container di Voltri-Pra’, l’aeroporto Cristoforo Colombo e le aree industriali del genovese.

Abbiamo tutti negli occhi ciò che rimane di quell’immenso scheletro di dinosauro in cemento e cavi d’acciaio, soprannominato il ponte di Brooklyn che, a differenza del simile americano, non ha saputo resistere all’incuria, all’inefficiente manutenzione, alla sufficienza con cui negli anni la sua condizione è stata valutata dagli esperti del settore; abbiamo negli occhi la voragine immensa che si è creata in quello spazio che ha inghiottito detriti, auto, camion, persone, e che ora sembra frapporre un terribile muro invisibile tra le due parti della città, i volti delle 43 vittime (quelle accertate), il dolore dei parenti davanti alle 18 bare durante il funerale di Stato celebrato il 18 agosto e quello di chi, invece, il suo strazio l’ha voluto vivere in forma privata. Come a Torre del Greco, come a Pisa, dove il rito funebre è stato celebrato solo per le persone più intime degli scomparsi, niente televisioni, niente autorità, nessuna istituzione.

Solo pochi giorni più tardi, sulla Fi-Pi-Li, altro importante snodo stradale che collega le tre città toscane, Firenze, Pisa e Livorno, è caduto un cartello; nessuna vittima, per fortuna, in questo caso, ma certo l’ennesimo esempio di malagestione delle infrastrutture ci impone una triste considerazione: possibile che il nostro bel Paese stia cadendo a pezzi?

Che la cosa ci piaccia o no, la risposta sembrerebbe essere proprio sì: lo dicono i dati, schiaccianti, che arrivano dagli istituti di competenza e che riguardano la manutenzione di edifici pubblici, ponti, autostrade, scuole.

Già, le scuole. Dei 42 mila plessi scolastici dove da settembre torneranno quasi otto milioni di alunni, oltre 850 mila insegnanti, 250 mila Ata e 6 mila dirigenti scolastici, quanti sono a norma e perfettamente agibili? I numeri, pubblicati dal Ministero dell’Istruzione e riportati, fra gli altri, da L’Espresso, sono impietosi: oltre 2.700 scuole italiane si trovano in zone a elevato rischio di terremoti, ma non sono state progettate o adeguate alle più recenti norme antisismiche.

Nove scuole su dieci non garantiscono i migliori standard di sicurezza a studenti e docenti, una condizione che interessa 44.486 scuole pubbliche, su un totale di 50.804 censite. Un plesso scolastico su cinque è chiuso per sempre o in attesa di essere messo a norma, recitano altri dati.

Secondo i dati dell’Anief (Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori) il piano di emergenza e il documento di valutazione del rischio sono stati riscontrati, rispettivamente dal 73% e dal 72%, ovvero meno di tre scuole su quattro; il certificato di collaudo statico da una su due (49%); il certificato di agibilità-abitabilità e di omologazione alla centrale termica da una su tre (39%); la certificazione della prevenzione incendi in corsi di validità si trova in una sola scuola su cinque (21%); il certificato di collaudo dell’impianto di spegnimento è presente in appena il 9% delle scuole.

Se ripensiamo al terribile terremoto di San Giuliano, in Molise, che nel 2002 costò la vita a 27 bambini anche a causa delle condizioni estremamente precarie in cui versava l’istituto, è chiaro che la preoccupazione di un genitore che manda a scuola il proprio figlio, senza conoscere il reale stato dell’edificio, è palpabile e condivisibile.

Naturalmente non è nostra competenza, né nostra volontà, addentrarci nel merito delle responsabilità gestionali, dei tecnicismi prettamente legati alle necessità di intervento sugli edifici e le infrastrutture, né additare questo o quello come colpevoli di quelle che, secondo la stragrande maggioranza delle persone, sono “tragedie annunciate”. Certo è, però, che un problema di insufficienza delle risorse, economiche ma non solo, impiegate nella manutenzione di certe imponenti strutture, una forte sottovalutazione del rischio e l’attitudine, tutta italiana, di credere sempre che non possa mai succedere nulla e perciò di fare poco o niente per prevenire il pericolo esistono, e non possono essere ignorate. Forse sarebbe il  caso che governi e opposizioni che si sono succedute in questi anni, ad alternanza più o meno regolare, la smettessero di giocare al rimpallo di responsabilità e ai j’accuse e cominciassero a preoccuparsi sinceramente di indirizzare le stesse forze e la stessa energia per garantire strade e palazzi più sicuri.

Utopia?

Speriamo di no, anche perché, dopo la tragedia di Polcevera, sui social e in generale sul Web sono iniziati a circolare molti altri post e foto di luoghi altrettanto precari e pericolanti; è piuttosto complesso districarsi, nel feroce mondo delle fake news, delle bufale e delle notizie riciclate, fra ciò che è vero e ciò che non lo è, ma a prescindere dallo sciacallaggio mediatico di chi vede nei drammi la costante opportunità di fare propaganda politica, quello che è del tutto appurato è la pericolosità di molti, moltissimi edifici e strutture italiani: come specificato, infatti, nel nostro paese non sono “solo” scuole e ponti ad avere il bollino rosso. Anche strade, argini, talvolta interi complessi abitativi o commerciali sono a forte rischio idrogeologico. Nella nostra gallery abbiamo cercato di fornire un quadro quanto più esaustivo delle situazioni di vero allarme della nostra penisola.