Muhammad Ali, la farfalla che punse come un'ape (anche il morbo di Parkinson)
Non è stato solo il più grande sul ring; Muhammad Ali ha lottato anche e soprattutto nella vita, contro il razzismo, contro la guerra, contro la malattia.
Non è stato solo il più grande sul ring; Muhammad Ali ha lottato anche e soprattutto nella vita, contro il razzismo, contro la guerra, contro la malattia.
È probabilmente lo sportivo più rappresentativo del XX secolo; perché, se è vero che molti sono i campioni che hanno eccelso in diverse discipline sportive e sono stati amati dal pubblico, quasi nessuno, se non lui, ha incarnato molto altro anche al di fuori della sua attività di atleta.
Muhammad Ali, nato come Cassius Clay nel 1942 a Louisville, in quel Kentucky che, in quanto stato del Sud, aveva sperimentato la schiavitù ed era stato anche di fondamentale importanza sia per Unionisti che per Secessionisti durante la guerra, non è stato infatti solo il più grande pugile mai esistito (senza nulla togliere a icone come Rocky Marciano o, più recentemente, Mike Tyson), ma soprattutto un uomo che ha lottato e rischiato per i propri ideali, finendo persino in carcere per difendere la sua idea pacifista, durante la guerra in Vietnam.
Ripercorrere la storia e la vita di questa leggenda, cui nemmeno la malattia – il morbo di Parkinson diagnosticato nel 1984 – ha tolto dignità e spirito combattivo (lo ricordiamo mentre accende la fiamma olimpica ai Giochi di Atlanta del 1996, nonostante l’evidente tremore), è praticamente impossibile, perlomeno in uno spazio così esiguo quale può essere un articolo.
Certo è curioso sapere, ad esempio, che Ali, quando ancora era Cassius Marcellus Clay – il nome era lo stesso del padre, che a sua volta lo aveva preso da un politico abolizionista del XIX secolo – si è avvicinato al mondo della boxe per puro caso, a dodici anni, quando un poliziotto irlandese, Joe E. Martin, gli aveva suggerito di iscriversi in una palestra dopo averlo sentito inveire contro chi aveva rubato la sua bicicletta. Agli esordi Clay vinse molti titoli dilettantistici, ma il culmine – almeno per il momento – arrivò nel 1960, con l’oro guadagnato alle Olimpiadi di Roma del 1960.
Quella stessa medaglia fu poi gettata nel fiume Ohio, per rabbia, dopo che fu costretto ad abbandonare un ristorante di Louisiville perché nero.
Ho dovuto lasciare il ristorante, nella mia città natale. Dove sono andato in chiesa e ho fatto del bene come un buon cristiano. Nella città in cui sono nato e cresciuto. Avevo vinto una medaglia d’oro e non potevo andare mangiare al ristorante della mia città? Qualcosa non andava.
Questo episodio, unitamente ad altri ricordi del razzismo vissuto e subito durante l’infanzia – su tutti, il rifiuto di fargli comprare una bottiglietta d’acqua in un negozio, raccontato dalla madre Odessa, e il brutale assassinio di Emmett Till nel 1955 – lo convinsero a impegnarsi contro la segregazione razziale che ancora divideva gli Stati Uniti. Lo avvicinò inoltre all’islamismo, cui si convertì nel 1964, dopo la clamorosa vittoria contro l’allora campione mondiale dei pesi massimi Sonny Liston, acquisendo definitivamente il nome di Muhammad Ali ed entrando a far parte del NOI (Nation of Islam), successivamente abbandonato.
Come Muhammad Ali il campione difese il titolo per otto volte e rifiutò la chiamata alle armi, nel 1966, dopo essere stato riformato, quattro anni prima; affermando di essere un “ministro della religione islamica”, Alì si definì un obiettore di coscienza e si rifiutò di partire per il Vietnam. Le sue frasi, che hanno tradotto quello che era il suo pensiero sulla guerra intrapresa dagli americani, sono entrate nella storia:
Ali, sai dov’è il Vietnam? – Sì, in TV.
Ma soprattutto
Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato ‘negro’.
La spavalderia di Ali non fu ovviamente apprezzata dai tribunali americani, che condannarono (con una giuria composta da soli bianchi) il campione a cinque anni di reclusione.
Il vissuto in carcere avrebbe forse spezzato chiunque; non Ali, che, al suo rientro, nel 1971, vinse per KO tecnico con Jerry Quarry e con Oscar Bonavena, prima di arrendersi, solo ai punti, a Joe Frazier. La sua rivincita però non tardò a giungere: nel 1973 si riprese il titolo strappandolo a George Foreman, in un incontro, svoltosi a Kinshasa, celebrato ancora oggi come uno dei più indimenticabili di tutti i tempi, raccontato fedelmente anche nel documentario Quando eravamo re.
L’ultimo match Muhammad Ali lo ha disputato l’11 dicembre 1981 alle Bahamas, contro Trevor Berbick, perdendo ai punti per decisione unanime, quando già i primi segni della malattia, probabilmente, si facevano vedere e ne rallentavano movimenti e linguaggio. La figlia Laila ne ha seguito le orme, diventando una boxeur con una discreta carriera.
Al di là delle grandi gesta sportive, indiscutibili, Muhammad Ali è stato però un uomo appassionato, onesto, fedele alle proprie idee, che non ha avuto paura di prendere pugni sul ring, ma soprattutto nella vita. E che non si è fatto fermare neppure dalla malattia, mostrandone gli effetti davanti a milioni di persone, perché aveva compreso che non ci fosse nulla di vergognoso nella sua condizione. Assieme alla frase forse più famosa pronunciata, “Vola come una farfalla, pungi come un’ape”, detta dopo l’oro di Roma, il pensiero sulla vita di Ali si riassume in questa:
Non c’è bisogno di stare in un ring di pugilato per essere un grande combattente.
Finché si resterà fedeli a se stessi, si avrà successo nella propria lotta, per quello in cui si crede.
Sfogliate la gallery per ripercorrere la storia di Muhammad Ali.
Iniziato alla boxe per caso, da un poliziotto irlandese che gli suggerì di iscriversi a una palestra dopo che la sua bici era stata rubata, Muhammad Ali, ancora come Cassius Clay, vinse un oro olimipico a Roma, salvo poi gettare la sua medaglia nell’Ohio per rabbia dopo alcuni insulti razzisti ricevuti nella sua città natale.
Solo nel 1996 il CIO gli diede una medaglia d’oro sostitutiva.
Con il manager Angelo Dundee Ali conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi, a sorpresa, ad appena 22 anni, battendo il campione del mondo in carica Sonny Liston.
Rifiutato dalle principali sedi pugilistiche americane e da Las Vegas dopo la conversione all’Islam, Ali disputò un match di rivincita con Liston il 25 maggio del 1965 a Lewiston, nel Maine.
Alla prima ripresa, dopo appena un minuto, il campione del mondo colpì l’avversario con un colpo d’incontro apparentemente innocuo, passato alla storia come the phantom punch, il pugno fantasma. Liston rimase al tappeto apparentemente tramortito, mentre Ali, pensando di non aver fatto troppo male all’avversario, lo invitava in maniera veemente a rialzarsi.
Nel 2004, nell’ultima intervista ufficiale rilasciata con l’aiuto della sua famiglia, Ali tornò sull’episodio, affermando:
Voglio bene a Sonny. Era un brav’uomo. E il pugno l’ha colpito. Non so bene quanto buono fosse il colpo, sebbene io abbia sentito il contatto. Se avesse voluto fingere un KO, non l’avrebbe mai fatto al primo round.
Una dichiarazione famosa di Muhammad Ali:
Mi sono sempre chiesto fin da bambino delle cose, ero molto curioso. Chiedevo a mia madre, perché è tutto bianco? Perché Gesù è bianco e ha gli occhi azzurri? Perché sono tutti bianchi nell’Ultima Cena? Perché anche gli angeli lo sono?
Babbo Natale è bianco. E tutto il brutto è nero. Il brutto anatroccolo è nero. Se il gatto è nero, è cattivo ed porta sfortuna. Se ti minacciano è blackmail (ricatto), perché non chiamarlo whitemail? Sapevo che qualcosa non andava.
Hai visto Tarzan? Era bianco, parlava con gli animali e gli africani che sono cresciuti lì e sono stati lì per secoli, non potevano farlo. Mi chiedevo: perché Tarzan, il re della giungla in Africa, era bianco?
Prima del match del 1973 contro l’allora campione mondiale George Foreman, che si tenne il 30 ottobre a Kinshasa, nell’allora Zaire, Ali cercò di innervosire il suo avversario con del trash-talking, insultandolo e irritandolo con le sue provocazioni. Il pubblico, del resto, era tutto dalla sua parte, tanto da incoraggiarlo con la frase, passata alla storia, “Ali boma ye” ovvero “Ali uccidilo”.
Anche la vita privata di Muhammad Ali fu abbastanza movimentata: si sposò la prima volta con Sonji Roi, una donna conosciuta solo un mese prima, nel 1964, ma ebbe due figlie, Miya e Kualiah, da relazioni extra-coniugali.
Muhammad e Sonji divorziarono nel 1966 perché lei rifiutava di cambiare il suo stile di pettinatura e vestiario all’occidentale; soprattutto, a infastidire Ali era il fatto che la moglie stirasse i capelli, gesto che lui interpretava come retaggio schiavista, in cui i capelli crespi erano considerati antiestetici.
Nel 1967 Ali si sposò con Belinda Boyd, che aveva otto anni meno di lui e con cui ebbe quattro figli: Maryum, nata nel 1968, Jamillah e Liban, nate entrambe nel 1970 e Muhammad Ali Jr., nato nel 1972.
Nel 1976, però, anche questo matrimonio naufragò, a causa della relazione che Ali aveva intessuto con la modella e attrice Veronica Porsche, sposata nel 1977. Con lei il pugile ebbe Hana, nata un paio di anni prima, e Laila, nata nel dicembre del 1977, che seguì le orme paterne nello sport.
Nel 1986 Ali divorziò anche da Veronica, e alla fine dello stesso anno sposò Yolanda Lonnie Ali, figlia di due vecchi amici dei suoi genitori, con cui, anni dopo, adottò un bambino, Asaad Amin.
Laila Ali è stata campionessa mondiale dei supermedi nel 2002, rimanendo poi imbattuta fino al suo ritiro dal ring e vincendo 24 incontri da professionisti, di cui 21 per KO.
Molti hanno tentato di fare parallelismi fra Ali e Mike Tyson, tanto che il torneo eWBSS ha persino organizzato un incontro virtuale con gli avatar dei due pugili, in cui a trionfare è stato il secondo. Ci ha pensato però lo stesso Iron Mike a dire la sua in merito ai talenti di entrambi:
So che quello che abbiamo fatto è solo un gioco e molto probabilmente la fantasia prevarrà. Probabilmente l’avrei sconfitto in una sfida immaginaria, ma non avrei vinto un combattimento vero. Ali è il miglior combattente di tutti i tempi.
Nel 1996 Muhammad Ali accese la torcia olimpica, mostrado in mondovisione i segni del morbo di Parkinson, diagnosticato nel 1984 e conseguenza, secondo i medici, del suo sport.
Nel 1998 Ali ha cominciato a collaborare con l’attore Michael J. Fox, altra star affetta da Parkinson, per aumentare la consapevolezza e aiutare la ricerca di fondi per la malattia. Insieme hanno anche fatto un’apparizione davanti al Congresso degli Stati Uniti, nel 2002.
Muhammad Ali si è spento il 3 giugno 2016 all’ospedale di Scottsdale, in Arizona, dove era ricoverato da un paio di giorno, per uno shock settico. La figlia Laila disse che, dopo la morte, il cuore del padre continuò a battere per mezz’ora, come se volesse battere anche la morte.
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