Imbottite di cow-pills, le pillole che vengono date alle mucche affinché ingrassino in breve tempo, private della propria dignità non solo di donna, ma di essere umano in generale. Le vite delle prostitute dei bordelli di Faridpur o dell’isola di Bani Shanta sono figlie della povertà e dell’indigenza estrema cui la gran parte della popolazione, in Bangladesh, è sottoposta.
Conseguenze estreme e terribili di un sistema che non ha saputo educare e fornire mezzi per far sì che le famiglie meno abbienti riuscissero a elevarsi, culturalmente ed economicamente, per uscire dal pantano della miseria che ancora oggi spinge le loro figlie, madri, sorelle sulla strada della prostituzione.
Sono tante, troppe, le sex workers, le operaie del sesso che popolano i lupanari di Daulatdia , uno dei più grandi al mondo, o di Faridpur, a due ore appena di macchina da Dacca, la capitale; donne che lavorano nei bordelli, legalizzati, per dare “conforto” ai turisti, ai marinai, agli scaricatori di porto.
Alcune delle loro storie sono state raccolte nel reportage curato da Ettore Mo per il Corriere, con le fotografie di Luigi Baldelli per Parallelozero; sono storie di profondo disagio, in cui necessità estrema, ignoranza, mancanza di opportunità contribuiscono a creare uno scenario che parla di donne quotidianamente umiliate, che non possono più neppure accedere ai diritti civili garantiti unanimemente a ogni persona, come quello al voto, o persino quello di essere seppellite degnamente.
Perché la prostituzione è così dilagante nel paese
Come abbiamo accennato in apertura, l’estrema povertà in cui vive dagli anni Settanta quasi il 50% della popolazione, pari a 140 milioni di abitanti, fornisce una motivazione esauriente per spiegare come mai la prostituzione rappresenti un fenomeno così espanso, nonostante gli stessi abitanti lo giudichino “repellente”: le famiglie dei contadini ridotti in miseria arrivano a vendere le figlie per soli 20 mila taka, pari a circa 245 dollari, come successo a Eiti, 25 anni, o di Lima, che all’epoca del reportage di Mo, nel 2012, di anni ne aveva appena 13. Entrambe erano ospiti del Ghat Brothel, casa d’appuntamenti sulla riva del Gange – che in questa zona prende il nome di Padma – gestito da Rokey e Aleya, quaranta, impegnate nella lotta per la riabilitazione delle prostitute, riuscite ad avere la riconferma del diritto di voto, a poter uscire con le scarpe ai piedi, a far aprire un cimitero musulmano per seppellire le consorelle islamiche e a ottenere che le ceneri delle donne Indù, bruciate sul rogo, possano essere sparse nelle acque del fiume sacro.
La vita nel bordello, un microcosmo all’interno della società bengalese
Daulatdia, forte di un esercito di 1.600 donne, è , come dicevamo, uno dei bordelli più grandi: ogni giorno le sex workers ricevono circa tremila clienti; il lupanare ha la struttura di un vero e proprio villaggio, con casette a un solo piano schierate lungo le strade, vicoli che l’attraversano e negozi e botteghe degli artigiani sempre aperti. Insomma, sembra davvero un microcosmo che vive nella pace e nella gioia ma la realtà, naturalmente, ha tutt’altra faccia. Ed è quella delle prostitute, che devono pagare l’alloggio nel bordello, l’affitto, la luce, l’acqua, il cibo e tutto quello che occorra loro per condurre un’esistenza “degna”; questo implica che ciascuna di loro debba avere rapporti con almeno quattro o cinque clienti al giorno.
C’è però persino chi, dal proprio lavoro, non riesce a intascare neppure un centesimo di taka: sono le Chukri , le prostitute vendute dalla nonna, dalla mamma o dalla suocera, che devono pagare la sardanis, la padrona del bordello.
C’è inoltre un’altra piaga ulteriore che si aggiunge al dramma delle prostitute del Bangladesh, che riguarda la presenza dei bambini nei bordelli. Alcuni passano mesi, se non anni, al loro interno.
“Fu un’esperienza terribile – racconta nel reportage una donna del postribolo di Faridpur – Quando arrivavano i clienti, nascondevamo i piccoli sotto il letto o li spingevamo fuori a giocare, nel corridoio, perché non vedessero“.
Esiste persino una scuola riservata esclusivamente ai figli delle prostitute, che fornisce anche lezioni di danza classica.
Le pillole delle mucche per ingrassare
L’aspetto, se possibile, ancor più scioccante di tutta la vicenda è che alle prostitute venga fatto assumere l’Oradexon, un farmaco che viene dato anche alle mucche per far sì che raggiungano il giusto peso e le giuste dimensioni fisiche e che, proprio per questo, viene chiamato cow pill , la pillola delle vacche. Questo perché nel paese l’ideale di bellezza corrisponde più a una donna in carne, robusta. Per tale motivo la sardanis sottopone le sue operaie a tale trattamento. Hashi, una ragazza diciassettenne all’epoca del reportage, che ha intrapreso la “carriera” di prostituta ad appena dieci a Kandapara, città a nord-est di Dacca, parla dell’Oraxedon in termini entusiastici: “Tu non lo puoi immaginare, ma c’è una grande differenza fra il mio aspetto attuale e quello della bambina gracile e denutrita dell’infanzia. Ora godo di un’ottima salute e sono in grado di intrattenere e soddisfare ogni giorno un bel numero di clienti, talvolta fino a quindici“.
Secondo i dati forniti da ActionAid, sottolinea il reportage, addirittura il 90% delle prostitute del Paese ricorre costantemente all’Oradexon fra i 15 e i 35 anni. Senza tenere conto delle controindicazioni possibili, come diabete, pressione alta, sfoghi cutanei e mal di testa, conseguenza dell’uso delle pillole. La cow pill accelera inoltre il processo di invecchiamento sulle ragazzine di 13, 14 e 15 anni, che dovrebbero aspettare i 18, come stabilisce la legge del paese, per intraprendere il lavoro.
Sebbene tra le prostitute di Faridpur, Kandapara e Bani Shanta non ci sia competizione né rivalità, ma anzi si instauri solidarietà ed empatia, oltre tutto trattandosi molte volte di generazioni intere di famiglie che proseguono il mestiere, l’aria che si respira nei bordelli parla però di disillusione, amarezza e sconforto. Lo testimoniano alla perfezione le parole di una delle prostitute anziane del Ghat Brothel:
Se anche riuscissi a fuggire dove potrei andare? I miei mi hanno sempre detestato e certo non mi rivogliono indietro. Sono la pecora nera della famiglia. Noi tutte ci dobbiamo rassegnare al fatto che siamo delle schiave e come schiave dobbiamo morire.
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