"Perché ho fotografato gli ultimi 19 giorni di vita di mio padre"

"Perché ho fotografato gli ultimi 19 giorni di vita di mio padre"
Fonte: ph. Josh Neufeld
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Perdere una persona cara come un genitore, un fratello, un figlio o un partner è qualcosa a cui non si è mai davvero preparati. Neppure quando le cartelle cliniche danno la loro sentenza, e i giorni che passano scandiscono lentamente e tristemente quel conto alla rovescia verso il qualcosa che nessuno, però, è mai pronto ad affrontare.

Perché l’addio si può preparare in mille modi, nella propria testa, su un pezzo di carta, lo si può immaginare, idealizzare, temere, ma solo quando lo si vive si realizza che la forza con cui abbiamo cercato di ingabbiarlo nelle maglie della razionalità non servono a nulla. Perché provoca dolore, anche se lo aspetti.

E c’è chi quel momento lo vive davvero in mille modi diversi, tutti rispettabilissimi. Josh Neufeld, un giovane fotografo americano cresciuto sulla costa nord-ovest del Pacifico, ha voluto immortalare con la sua macchina fotografica gli ultimi 19 giorni di vita del padre, ammalatosi di cancro al pancreas.

Lo ha fatto con un motivo e uno scopo precisi, che ci ha spiegato.

Con gli zii e i miei cugini siamo scesi a Oceanside, in California; lo zio non stava molto bene, cinque anni prima al Parkinson, di cui già soffriva, si è aggiunto il cancro, ma lui ha sempre lottato, anche durante tutti i trattamenti terapeutici cui si è sottoposto. Ci ha parlato apertamente della sua battaglia, abbiamo visto, ascoltato e sentito che cosa significasse per lui avere una malattia difficile e terminale, e in che modo ha ridotto le complessità della vita godendosi le piccole cose.

Queste conversazioni mi hanno commosso e incorporato il desiderio di condividere quell’ispirazione con gli altri. Attraverso immagini e parole, volevo fare una cronaca dell’esperienza delle persone con la morte e le malattie terminali, tanto che ho pensato di cominciare a fare volontariato in un ospizio“.

Josh continua, spiega che il padre è sempre stato un insegnante e un mentore per lui, che lo ha guidato in ogni aspetto della sua vita. Con lui, ha discusso del progetto cui voleva dare vita, che ha deciso di chiamare Meeting Mortality, ovvero “incontrare la morte”. Un modo per esorcizzare la paura e abbattere i tabù, anche se Josh non sapeva che, di lì a poco, il significato di quella frase avrebbe avuto una valenza del tutto nuova per lui.

Solo un paio di mesi più tardi, mentre non riuscivo a trovare un ospizio per fare volontariato, un dolore sottile ma intenso si radicò nella schiena e nell’addome di mio padre, diventando rapidamente debilitante. Più visite con più specialisti hanno ridotto la vita di mio padre in due parole: cancro e metastasi. La sua malattia progrediva a un ritmo allarmante. Dall’inizio del primissimo dolore, alla diagnosi, fino alla morte, i medici ci dissero che sarebbe stata solo una questione di mesi.

L’abbiamo visto passare dall’essere un amante della vita, andare in bici, bere vino, scrivere libri, al diventare cenere in una scatola che mia madre ha riposto sulla cappa del camino, in quelle che sono state le settimane più corte e più lunghe della mia vita.

Abbiamo trascorso i suoi ultimi 19 giorni in ospedale con lui, 10 ore al giorno. Ho iniziato a fare una cronaca attraverso le foto. Una cosa la posso dire: non abbiamo mai perso l’ironia, né io, né lui“.

In gallery il servizio fotografico di Josh, accompagnato dalle parole che lui ha scritto a corredo del progetto, nel suo sito.

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