"Quella volta che... capita a tutte": perché le donne non denunciano la violenza
"Capita a tutte" non significa che va bene così.
"Capita a tutte" non significa che va bene così.
È un racconto collettivo quello originato sui social dagli hashtag #quellavoltache, un’idea nata dalla scrittrice Giulia Blasi dopo gli attacchi ad Asia Argento che nei giorni scorsi ha denunciato lo stupro subito da parte del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein, e #metoo, la campagna lanciata dall’attrice Alyssa Milano.
È la cronaca di un dramma corale che riguarda tutte le donne. Tutte. Chi può dire “a me no”, è quasi l’eccezione, di certo non la regola. Anzi, per la maggior parte di noi non è stata quasi mai quella volta che, ma “tutte quelle volte che”.
Quella volta che o tutte le volte che…
…
Siamo state molestate da uno sconosciuto, per strada o sull’autobus e siamo state zitte per paura di passare per pazze.
O ci siamo incazzate e siamo passate per pazze, mentre lui negava, oltraggiato dalle nostre accuse; con l’eccezione di quella volta che una sola persona ci ha sostenute, mentre gli altri stavano a guardare con il sospetto che fossimo mitomani e misurando scollatura, orli e trucco per valutare l’eventuale livello della nostra innocenza.
… Un amico di cui ci fidavamo è andato troppo in là con le avance, anche se lui probabilmente giurerebbe che la sua eccessiva insistenza, spesso non solo verbale, fu direttamente proporzionale al suo serio interesse per noi o, in alternativa, “solo” al suo inconsapevole stato di ubriachezza.
E noi zitte, perché chi ti crede se dici che il ragazzo con cui sei stata vista spesso in giro ti ha molestata? Al massimo “lui era un po’ brillo e a te è piaciuto che ci provasse, ti ha fatto piacere sentirti desiderata”.
E noi zitte, senza a volte neppure interrompere i rapporti di amicizia con lui, per quell’abitudine femminile ai rapporti di forza maschio-femmina per cui finisce che tu per prima pensi “ok ha esagerato, ma è tutto rientrato. Magari è stata anche colpa mia”.
… Siamo state stuprate dal fidanzato con cui ci siamo appartate in auto o in spiaggia, adolescenti, convinte di scambiare qualche eccitante effusione ma ancora non pronte al sesso che lui ha preteso e ci ha imposto, in virtù del fatto che non fossimo più vergini o a prescindere dall’eventualità che lo fossimo.
E siamo state zitte, perché chi ti crede se dici che il tuo ragazzo con il cui nome hai riempito la tua Smemoranda ti ha violentata?
… Siamo state molestate da un professore, un datore di lavoro, un superiore rapace che ci hanno umiliato con apprezzamenti osceni, descrizioni perverse delle fantasie sessuali che noi – come fosse un complimento o una colpa – abbiamo scatenato in loro, con il loro fiato lurido troppo vicino al nostro collo, senza motivo. Alcuni di loro ci hanno messo anche le mani, che hanno cinto la nostra schiena, si sono infilate nella scollatura, su per le cosce, fino al limite estremo in cui andare ancora oltre alla nostra resistenza avrebbe lasciato dei segni e sarebbe diventato inequivocabilmente stupro.
A quel punto lui se ne va, ancora più eccitato, gettando lì quella frase complice di chi vuol far passare la molestia per un gioco di seduzione che state giocando in due e, in realtà, ti sta avvertendo, con il sorriso, che è la tua parola contro la sua, la parola dell’uomo perbene, il padre di famiglia, lo stimato e influente professionista contro la tua.
E noi zitte.
Perché quella volta che abbiamo parlato è andata peggio che sull’autobus, là a guardarci come pazze erano perfetti sconosciuti che non ci hanno creduto, in questo caso sono stati i colleghi che sapevano, ma sono stati zitti ad ammirarci compiere il nostro “suicidio professionale” e lasciare la nostra scrivania. Anni dopo alcuni di loro ci diranno che ci ammirano perché abbiamo avuto il coraggio che a loro è mancato (a noi, di contro, è mancato quel posto e pure quello stipendio che hanno loro).
In questo racconto corale, accanto ai racconti di bestialità disumane, di abusi sessuali su bambine spesso avvenuti in famiglia e di violenze carnali non confessate, ci sono i racconti quotidiani di un’omertà che non finirà oggi, fatta di violenza-non-violenta: non lasciano segni, nella maggior parte dei casi non penetrano, non c’è eiaculazione, si fermano poco prima di diventare “ufficialmente” violenza, non sono dimostrabili.
“Stai a vedere che adesso tutte sono vittima di violenze sessuali”, dicono le donne annoiate dal continuo parlare di stupri.
“La prossima volta che ci provo con una mi faccio firmare il fatto che era consenziente” ironizzano senza troppo divertimento gli uomini, urtati dal piagnisteo delle donne cui hanno indirizzato palpate o il beneficio di quelli che, a loro avviso, furono complimenti che dovrebbero inorgoglirci.
Siamo talmente abituati che tante donne prendono la difesa di questi uomini: “Stiamo esagerando, lo stupro è un’altra cosa. Queste cose capitano a tutte. Gli uomini hanno sempre fatto così. Basta dire di no, andarsene, metterli a posto, anche a costo di perdere il lavoro”.
Vero! Lo stupro è una cosa, la molestia sessuale e l’abuso di potere un’altra. Peccato che molte di noi abbiano pagato un conto salato a queste aberrazioni travestite da normalità, dal punto psicologico, nelle relazioni di tutti i giorni, nel rapporto con se stesse. Peccato che queste “cose che capitano” abbiano modificato le nostre vite, le nostre carriere, ci abbiano estromesso dai nostri sogni, da ruoli che ci spettavano e non sempre è stato possibile ricostruire. Non per tutte.
Ma non bisogna lamentarsi, basta dar fastidio, succede a tutte, non farne un dramma, rimboccati le maniche e datti da fare.
Sì, insomma, stai zitta, non disturbare, quanto rumore, non denunciare. E se lo fai… peggio per te.
Più di una volta mi sono trovata in situazioni fastidiose dove ho dovuto combattere per non diventare preda dell’uomo.
Non sempre ci sono riuscita.***
Ho sempre sentito negli anni la pressione del maschio, di potere ma anche non.
Ho avuto l’opportunità di raccontare lo stupro nel film di Battiato “Diario di uno stupratore”, e anni dopo ho raccontato la violenza domestica nel film di Ferzan Ozpetk “Un giorno perfetto”.
Il racconto di tante donne coraggiose che in questi giorni stanno rivelando quello che hanno dovuto subire nel corso della loro carriera, apre un nuovo capitolo della nostra storia.
Ho molto rispetto e stima e amore per tutte loro, per il loro coraggio di raccontare l’orrore subito.
Il loro gesto rappresenta un cambio destinato a modificare per sempre un sistema di lavoro corrotto e ingiusto.
Questo è il momento di accendere la luce su una ingiustizia profonda che deve finire.
L’abuso del potere è inaccettabile, e come donna, ma anche come madre, voglio lottare per il potere del rispetto. #quellavoltache
#quellavoltache , proprio la settimana scorsa, ero in treno, carrozza vuota, si avvicina un uomo e inizia a dirmi che gli piaccio molto, sono proprio il suo tipo, chiede con insistenza il mio numero. Io rimango interdetta per qualche secondo, il mio cervello non è bravo a gestire le situazioni di allarme e va completamente in panico di fronte al suo incalzare, nonostante io gli abbia già detto di non essere interessata.
Continua a fissarmi e a sogghignare, con aria superiore, come a dire ‘io mi prendo ciò che voglio’; di fronte a quello sguardo mi sento nuda, indifesa, vulnerabile.
Grazie al cielo arriva il controllore, mi sento salva.
Sono state sensazioni orribili, che mi si sono appiccicate addosso e mi hanno fatto ripensare a tutte le volte che mi sento così anche per strada, quando qualche coglione mi fischia o ammicca o mi dice cose schifose.
Due giorni dopo il mio ragazzo mi ha comprato uno spray anti aggressione, sa (e lo so anche io) che mi ritroverò di nuovo sul treno, sulla metro o per strada da sola. So che potrei sentirmi di nuovo in pericolo. Sapere di averlo in borsa mi dà maggiore sicurezza, ma non dovrebbe essere così, vorrei e DOVREI sentirmi sicura a prescindere dal fatto che abbia con me qualcosa con cui potermi in qualche modo difendere.
La beffa è stata che raccontandolo poi a qualche conoscente, qualcuno è stato comprensivo, da altri invece mi sono sentita dire che in parte era anche colpa mia, in fondo quel giorno indossavo “una gonna sopra al ginocchio, è facile e normale attirare l’attenzione con un certo tipo di abbigliamento”. Ero schifata, mi sono sentita per la seconda volta come mi sono sentita su quel treno: completamente sola.
Cosa ne pensi?