Si è barricata in una stanza d’albergo dell’area di transito dell’aeroporto di Bangkok, lanciando un disperato appello: “Non mi portate dalla mia famiglia, mi ucciderebbe“.
La storia di Rahaf Mohammed Al-Qunun, diciotto anni appena e coraggio da vendere, è quella di moltissime ragazze che pagano il prezzo, altissimo, di essere cresciute in una cultura misogina ed estremamente maschilista, in cui le donne sono considerate tutt’al più merce di scambio grazie a cui fare affari con le famiglie amiche o ingraziarsi quelle rivali.
Sia chiaro, la cultura dei matrimoni combinati è ancora fortemente radicata in determinate comunità e aree del mondo, ma non è un tema che “non ci riguarda”; anche perché, molto spesso le ragazze che vengono costrette a sposare dei perfetti sconosciuti nell’ambito di uno scambio tra famiglie vivono nei nostri Paesi, seguono i nostri usi, e vorrebbero semplicemente una vita “all’occidentale” che i loro padri non tollerano.
Ricordiamo, ad esempio, il caso di Sana, la ragazza pakistana, ma residente in Italia, uccisa pare dal padre e dallo zio proprio per aver rifiutato un matrimonio combinato, seguendo l’usanza del suo paese di origine.
Rahaf, originaria dell’Arabia Saudita, paese che notoriamente è assolutamente rigido – eufemismo – nei confronti delle donne, è stata più fortunata, ed è riuscita a scappare da quella famiglia che la soffocava e da un paese dove sapeva che sarebbe stata oppressa, con la sola colpa di essere nata femmina.
Attraverso un video, postato su Twitter, la ragazza aveva mostrato la sua situazione, chiusa nella stanza d’albergo dove si è rifugiata per 24 ore dopo che a Bangkok il suo passaporto era stato sequestrato da un diplomatico saudita.
Because I got nothing to lose I’m going now to share my real name and my all information.
— Rahaf Mohammed رهف محمد القنون (@rahaf84427714) 6 gennaio 2019
Il suo intento iniziale era partire dalla Thailandia per raggiungere l’Australia, dove avrebbe chiesto asilo politico, ma l’imprevisto ritiro del documento di viaggio ha scombinato i suoi piani, facendola propendere per la richiesta di asilo politico nel paese asiatico.
Il suo avvocato, Nadthasiri Bergman, come riporta Afp ha presentato un’ingiunzione al tribunale penale di Bangkok per impedire che la giovane venisse deportata, respinta però da una corte thailandese per insufficienza di prove. Il legale ha già fatto sapere che ricorrerà in appello, ma, almeno al momento, la situazione di Rahaf sembra aver preso una piega positiva, come vi raccontiamo in gallery, dove abbiamo ripercorso la sua storia.
Scappa perché ha rinunciato all'Islam
La diciottenne saudita è stata fermata all’aeroporto di Bangkok il 5 gennaio, mentre cercava di fuggire dalla sua famiglia e di dirigersi in Australia.
“Se mi rimpatriano mi uccideranno”, ha detto Rahaf alla Bbc, spiegando di aver “rinunciato all’islam e di temere di essere uccisa dalla sua famiglia in Arabia Saudita”.
La ragazza, anche tramite il suo profilo Twitter, ha chiesto asilo politico e l’aiuto dell’Onu.
I suoi documenti sono stati sequestrati
Rafah era in viaggio con la famiglia in Kuwait quando è scappata verso la Thailandia, dove doveva fare scalo per l’Australia. Arrivata all’aeroporto di Bangkok il suo passaporto è stato sequestrato da un diplomatico saudita. Dopo il fermo, la ragazza ha voluto raccontare su Twitter la sua storia, postando anche le foto dei suoi documenti di identità.
Può rimanere in Thailandia
I funzionari per l’immigrazione thailandesi hanno in un primo momento detto che Rahaf sarebbe stata rimandata in Kuwait, per poi smentire di volerla rimpatriare. Alla giovane è stato permesso di restare in Thailandia, come annunciato dal responsabile dell’immigrazione, Surachate Hakparn, che ha anche aggiunto che Rahaf è ora “sotto la supervisione dell’Unhcr”.
Si è barricata in hotel
Dopo il fermo, Rahaf si era barricata nella stanza di un albergo dell’aeroporto, dove è rimasta per 24 ore, raccontando la sua vicenda sui social.
È in attesa di conoscere il suo destino
Rahaf ha lasciato lo scalo sotto la protezione dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani, e rimarrà nel paese asiatico fino a quando la sua richiesta di asilo non sarà valutata.
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