Per gli appassionati di graphic journalism, il norme di Rina Fort non è nuovo. La casa editrice BeccoGiallo, tempo addietro, aveva lanciato una collana che raccoglieva i grandi casi di cronaca nera italiana, dalla Saponificatrice di Correggio ai delitti della Banda della Magliana, passando per Unabomber. Tra i vari volumi ce n’è uno dedicato proprio a Fort, chiamata «la Belva di via San Gregorio» oppure «la Belva con la sciarpa color canarino». Nel 1952 questa donna fu condannata per l’omicidio della moglie del suo amante e dei tre bambini della coppia.
Le vittime, è importante ricordarlo perché troppo spesso finiscono dimenticate nella cronaca e nella storia, si chiamavano Franca Pappalardo, Giovanni, Giuseppina e Antonio Ricciardi. Franca era la mamma degli ultimi tre, rispettivamente di 7 anni, 5 anni e 10 mesi. L’omicidio dei tre piccoli rende ancora più brutale questa storia, anche perché restano ancora oggi dei punti oscuri che non emersero al processo. Rina riuscì a uccidere tutti da sola? Come per la Saponificatrice di Correggio, ci sono scuole di pensiero per cui Rina Fort venne aiutata da qualcuno, molto probabilmente un uomo.
Il pluriomicidio avvenne a Milano, in via San Gregorio 40 appunto, il 29 novembre 1946. Mentre il processo partì nel 1950, le indagini che portarono a Rina Fort iniziarono da subito, anche perché l’amante, Giuseppe “Pino” Ricciardi – nonostante un comportamento ambiguo e assolutamente superficiale – fece il suo nome agli inquirenti, guidati da un fuoriclasse come il commissario Mario Nardone. Come riporta il Corriere della Sera, Fort cedette solo dopo 17 interrogatori, per una durata totale di 80 ore sotto il torchio degli investigatori. I verbali di polizia sono inquietanti e proprio sulle pagine del Corriere, lo scrittore Dino Buzzati, tornato a fare il giornalista di malavoglia su questo caso, scrisse delle pagine che a leggerle ancora oggi fanno male.
E voi parlatene pure, se vi interessa tanto – scrive Buzzati nel volume Cronache nere – leggete i resoconti, contemplate le fotografie, andate pure, se non potete farne a meno, alla Corte d’Assise, discutetene alla sera. Però vi resti fitto nel cuore il ricordo di quei tre bimbi selvaggiamente uccisi, di quei tre faccini rimasti là, immobili per sempre, con l’espressione stupefatta, di quel seggiolone da lattante da cui colò il tenero sangue. Le anime dei tre innocenti sovrastano, con pallida e dolorosa luce, la folla riunita al tribunale; e può darsi che vi guardino.
Sfogliamo insieme la gallery per conoscere meglio i dettagli di questa orribile vicenda giudiziaria.
Le origini
La storia di Caterina “Rina” Fort parte da lontano. Nasce il 28 giugno 1915 a Santa Lucia di Budoia, in Friuli. La sua giovinezza fu costellata di tragedie: il padre morì durante un’escursione in montagna e il suo primo fidanzato morì di tubercolosi. Lei poi scoprì di essere sterile. A 22 anni si sposò con Giuseppe Benedet, che fu internato in manicomio per via di disturbi psichiatrici. Dopo la separazione la donna si trasferì a Milano dalla sorella.
L’incontro con Ricciardi
Nel 1945, Rina divenne commessa in un negozio di tessuti di via Tenca. Il negozio era di proprietà di Pino Ricciardi (in foto), del quale divenne poi l’amante – anche se disse di non sapere che fosse sposato. In effetti, Ricciardi presentava Rina come sua moglie, tanto che Franca, che viveva a Catania e fu informata di quello che stava accadendo, decise di recarsi a Milano con i figli nell’ottobre 1946.
L’arrivo di Franca
Con Franca (in foto coi figli) a Milano le cose cambiarono un po’. I due amanti continuarono a vedersi, ma Rina fu licenziata per poi venire impiegata nella pasticceria di un amico. Franca fu ferma e decisa: Rina avrebbe dovuto fare un passo indietro, tanto più che Franca era incinta del quarto bambino.
Il delitto
La confessione di Rina racconta di un’escalation terribile di violenza. La donna si recò a casa di Franca (l’ingresso in foto), che la accolse in maniera educata, offrendole perfino del rosolio. Rina colpì Franca con il collo della bottiglia rotta qualche secondo prima e con un ferro trovato in cucina. Poi la violenza calò sul capo dei bambini, dapprima sul più grande, Giovanni, che cercò di difendere la madre, poi sugli altri, perfino sul neonato. Dapprima, Rina, dopo i primi colpi, si rifugiò in cantina, per poi tornare sul luogo del delitto, finendo le vittime e simulando un furto con pochissimi degli averi in argento della famiglia.
I dettagli cruenti
Non era ancora morto nessuno – disse Rina agli inquirenti in relazione al ritorno sul luogo del delitto – il piccolo respirava, la signora si dimenava, la Pinuccia rantolava. La Pappalardo fissandomi con occhi sbarrati diceva sommessamente: «Disgraziata! Disgraziata! Ti perdono perché Giuseppe ti vuol tanto bene.» Poi soggiunse «Ti raccomando i bambini, i bambini…». Mi chiese aiuto la signora, mentre continuava a dimenarsi. Singhiozzava, poi si mise bocconi. Mi diressi verso la camera da letto e passai su di lei con tutto il peso del mio corpo. Essa non parlava più, ma respirava ancora. Senza rendermi conto di ciò che facevo, rovesciai sul viso delle vittime un liquido, e prima di allontanarmi definitivamente ficcai loro in bocca dei pannolini imbevuti dello stesso liquido.
Le indagini
Il pluriomicidio fu scoperto dalla commessa Pina Somaschini, che aveva sostituito Rina al suo licenziamento. La donna trovò Franca e Giovanni vicino all’ingresso, Giuseppina e Antonio in cucina, tutti riversi tra sangue, materia cerebrale e vomito. Gli inquirenti furono guidati dal commissario Nardone, che comprese immediatamente che non si trattava di un furto, ma di, come veniva in passato chiamato, un delitto a sfondo passionale. Si pensò immediatamente alla presenza di una terza persona, probabilmente un uomo: furono infatti trovati in cucina tre bicchierini sporchi di rosolio, tra cui uno con tracce di rossetto, probabilmente quello usato da Rina.
L’alibi di Pino
Pino Ricciardi (in foto con Franca) costruì il suo alibi sul fatto che si trovasse a Prato per affari, ma gli inquirenti pensarono anche a lui come terzo uomo. Quando a Pino fu mostrato il luogo del delitto, l’uomo si disse preoccupato per le suppellettili trafugate, non per la famiglia sterminata. Rina fece il nome di un certo Carmelo, dicendo che questi le avrebbe offerto una «sigaretta drogata». Questo Carmelo sarebbe stato un tizio di cognome Zampulla, che però non fu riconosciuto da Rina al processo, tanto che fu prosciolto.
La condanna
L’ergastolo giunse per Rina il 9 aprile 1952 e fu confermato in Cassazione il 25 novembre 1953. Rina continuò, durante l’iter di legge e successivamente, a proclamarsi innocente per l’omicidio dei bambini. Rina fu in galera però solo fino al 1975, dapprima nel carcere di Perugia, poi a Trani e infine in quello delle Murate a Firenze. Fu il Presidente della Repubblica Giovanni Leone a concederle la grazia nel 1975.
La fine della vicenda
Nel 1975 morì Pino Ricciardi, che intanto si era risposato e aveva avuto un figlio. Rina visse a Firenze fino al 2 marzo 1988, quando morì per infarto. Cambiò cognome, dato che il suo era tristemente noto, riprendendo quello dell’ex marito Benedet oppure usando lo pseudonimo di Furlan.
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