“Pulizia etnica” è il nome che moltissimi dittatori e governi illegali hanno usato per giustificare i genocidi compiuti ai danni di popolazioni intere per ragioni razziali, o religiose. L’esempio immediato che viene in mente è quello dell’ex presidente della Repubblica Federale jugoslava Slobodan Milošević, che si è macchiato di crimini di guerra terribili per cui il  Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia non ha potuto punirlo solo perché è scomparso prima che fosse emessa la sentenza, nel 2006. Ma in moltissime parti del mondo ci sono popoli interi che combattono ogni giorno per sopravvivere e sono sottoposti alle barbarie più feroci e inaudite, spesso di fronte all’indifferenza o alla totale ignoranza internazionale, solo a causa della fede religiosa o della cultura di appartenenza.

Fra questi ci sono i Rohingya, una minoranza musulmana di Myanmar, nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, fra gli strati più poveri della popolazione, e al centro di una terribile repressione in un Paese quasi completamente buddista. Fino al 1982 i Rohingya hanno costituito la più grande comunità apolide del globo, dato che veniva negata loro la cittadinanza birmana.  Ancora oggi sono considerati dei bengalesi musulmani, arrivati con la colonizzazione britannica, a cui il governo birmano non riconosce la cittadinanza e a cui è impedito di muoversi liberamente nel paese, al punto di essere relegati in campi sovraffollati fuori dalla città di Sittwe, capoluogo del Rakhine, lottando contro l’intolleranza religiosa di estremisti e gruppi buddisti ultranazionalisti.

Benché la loro situazione storicamente non sia mai stata facile, la campagna di persecuzione nei confronti  dei Rohingya si è inasprita nell’agosto 2017, quando le autorità birmane hanno lanciato la “clearance operation” per rispondere agli attacchi della Arakan Rohingya Salvation Army. Il Segretario Generale dell’ONU António Guterres ha definito la strage operata in Birmania “una delle peggiori al mondo“, con oltre 700.000 Rohingya costretti a rifugiarsi in Bangladesh per sfuggire alla violenza dell’esercito di Naypyidaw.

Il report pubblicato il 18 settembre 2018, dopo la missione esplorativa dell’ONU sul Myanmar, ha parlato di prove evidenti di genocidio e crimini contro l’umanità, situazione che già l’anno precedente Zeid Ra’ad al-Hussein, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, aveva descritto durante una riunione urgente tenutasi a Ginevra. In quell’occasione, al-Husseini aveva parlato di “atti di spaventosa barbarie commessi contro i Rohingya, tra cui bruciare deliberatamente persone a morte all’interno le loro case, omicidi di bambini e adulti, sparatorie indiscriminate di civili in fuga, violenze diffuse su donne e ragazze, distruzione di case, scuole, mercati e moschee“.

All’interno di questo contesto terribile di violenza e oppressione, gli stupri delle donne Rohingya fanno parte di quella “pulizia etnica”, esattamente come già successo nella ex Jugoslavia. In questo caso specifico la violenza a sfondo sessuale, specifica Guterres,  dovrebbe rappresentare un deterrente per indurre i Rohingya ad abbandonare la propria patria.

Secondo Radhika Coomaraswamy, un membro della missione ONU, “la portata, la brutalità e la natura sistematica dello stupro e della violenza indicano una statuita strategia tesa ad intimidire, terrorizzare o punire la popolazione civile“.  Con la conseguenza, palese, che “stupro, stupro di gruppo, schiavitù sessuale, nudità forzata e mutilazioni sono usati come vera e propria tattica di guerra“.

La fotoreporter Allison Joyce, vincitrice di numerosi premi per il suo lavoro di inchiesta, ha raccolto i volti e le storie di alcune delle donne violentate e torturate in Myanmar, che noi abbiamo raccolto in gallery: le loro testimonianze e le cicatrici sui loro corpi sono davvero raccapriccianti e servono a dare solo in minima parte l’idea dell’orrore di cui sono state vittime.

L'inferno dei Rohingya, fra le donne stuprate e i neonati gettati nel fiume
Allison Joyce/Getty Images
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