A oggi sono 178 giorni che il 37enne di origini siriane Hassan Al-Kontar vive segregato al terminal 2 dell’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malesia. Sono ancora lontani i 18 anni che il rifugiato iraniano Merhan Karimi Nasseri visse bloccato all’aeroporto Charles De Gaulle dal 1988 al 2006 e che ispirò Spielberg per il film The Terminal; eppure per il giovane siriano non c’è ancora una speranza di soluzione all’orizzonte.
La giornalista britannica Nyima Pratten ha incontrato Hassan per conto di Vice al terminal 2 e descrive così il loro incontro:
Ho trovato il siriano Hassan Al-Kontar seduto accanto al banco del transfer, concentrato sul suo telefono. Sebbene fisicamente stia scomparendo—ha perso parecchi chili in questi mesi intrappolato in aeroporto, vittima della burocrazia internazionale—la sua presenza di spirito non fa che rinvigorirsi, grazie anche ai social network e ai media che hanno raccontato la sua storia, facendogli giungere diverse offerte di aiuto da tutto il mondo, compresa qualche proposta di matrimonio.
Hassan infatti ha raccontato la sua storia attraverso i propri profili social, tentando di non farsi sopraffare dallo sconforto e cercando in tutti i modi una soluzione. Ed è così che posta con ironia scatti in cui si taglia i capelli nei bagni dell’aeroporto, in cui cura “il suo giardino” o porta a spasso “il suo cane”.
Nonostante Hassan ce la metta tutta per non deprimersi, la sua storia è una perfetta testimonianza di quanto siano burocraticamente difficili le situazioni dei rifugiati siriani, che spesso si ritrovano a essere rimbalzati da uno Stato all’altro, dimenticando si tratta di persone e non palline da pin pong.
Sfogliate la gallery per conoscere la storia di Hassan.
Non può tornare in Siria
Hassan lavorava negli Emirati Arabi dal 2006 quando, nel 2011 è scoppiata la guerra civile in Siria ed è stato dunque richiamato per il servizio militare, ma si è rifiutato. A Nyima Pratten ha raccontato:
“Ho rifiutato, perché non c’era nessun nemico definito. Questa non è la mia missione nella vita. Non voglio vivere un’esistenza dl genere. Mi sono rifiutato di entrare a far parte di questa macchina criminale, di distruggere la mia stessa casa. Mi sono rifiutato, come migliaia di altri cittadini siriani.”
Rifiutandosi è diventato però un disertore e tornare in Patria significherebbe essere arrestato.
La perdita del lavoro
Nel 2012 il suo passaporto scade, ma non potendo tornare in Siria per rinnovarlo viene licenziato dal lavoro. Per 5 anni si trova così a vivere da clandestino degli Emirati Arabi, dormendo in strada, finché non viene arrestato. L’intervento di un amico riesce però a salvarlo, rinnovandogli il passaporto per altri due anni e Hassan ne approfitta per andare in Malesia.
La Malesia
La Malesia è infatti uno dei pochi Paesi che garantisce il visto in ingresso ai cittadini siriani, ma nel periodo del visto (comprese estensioni) non riesce a trovare lavoro, perciò è costretto ad abbandonare la Malesia. Ci prova per due volte, senza successo.
I due tentativi di espatrio
La prima volta Hassan cerca di partire con la Turkish Airlines per Istanbul, per poi raggiungere l’Ecuador, un altro dei paesi dove i siriani possono ottenere un visto in ingresso, ma viene bloccato al gate delle partenze e non ottiene nemmeno il rimborso del biglietto. La seconda volta ci prova con AirAsia per la Cambogia, che riesce a raggiungere, ma una volta atterrato gli viene negato il visto e viene rispedito in Malesia.
Il terminal 2
Hassan riatterra quindi a Kuala Lumpur il 7 marzo 2018 e da quel giorno è bloccato al Terminal 2. La Malesia infatti non è tra i paesi firmatari della Convenzione relativa allo statuto dei Rifugiati del 1951, che tutela i diritti dei rifugiati e stabilisce gli obblighi del paese d’accoglienza a proteggerli e quindi andare all’ufficio immigrazione significherebbe rischiare di essere deportato in Siria. Così, Hassan è ancora ufficialmente sotto le cure di AirAsia, che gli fornisce gli stessi tre pasti giornalieri a base di riso e pollo, ogni giorno da quel 7 marzo.
I social
Hassan sta cercato aiuto dove può e attualmente spera che che un gruppo di volontari canadesi riesca a racimolare abbastanza fondi per accoglierlo nel Paese come rifugiato, ma l’intero processo di richiesta potrebbe durare fino a 26 mesi. Nel frattempo ha fatto conoscere la propria storia attraverso i suoi canali social, dai quali riceve molto sostegno, ma come afferma lui stesso:
“Le persone che si preoccupano per me non hanno potere. E le persone che hanno il potere, non si preoccupano per me”.
La vita in aeroporto
Al terminal 2 non ci sono ristoranti o bar e se Hassan vuole qualcosa di diverso dai pasti confezionati di AirAsia è costretto a pagare qualcuno che gli porti altro cibo da altre aree dell’aeroporto. L’unico negozio che c’è, è un negozio di telefoni cellulari dove il ragazzo ha dovuto ricomprare il caricabatterie più volte, dopo che gli era stato rubato.
“Spero che chi l’ha rubato ne avesse davvero bisogno.”
Il sottoscala
Dopo i primi 50 giorni in cui Hassan ha dormito sulle scomode panchine, gli è stato fornito un materassino in un sottoscala, dove conserva i suoi pochi averi.
I suoi sogni
Da quando la storia di Hassan si è diffusa, ha ricevuto molto sostegno e proposte di interviste, ma, come racconta sempre a Nyima Pratten:
“Sogno di potermi fare un caffè, fare una doccia, andare al lavoro. Farmi nuovi amici, magari incontrare una ragazza, invitarla a cena, insomma vorrei semplicemente vivere ed essere al sicuro”
Le proposte di matrimonio
Tra le proposte ricevute, trattandosi inoltre di un bel ragazzo, non sono mancate quelle di matrimonio, al fine di garantirgli una seconda cittadinanza, ma su queste ha dichiarato:
“L’ultima l’ho ricevuta da Miami. Ma anche dall’Australia, dall’America, dal Canada, da diversi paesi in Europa, Tahiti, Hawaii e le Maldive…! Ma è illegale combinare un matrimonio per ragioni di visto. Io voglio tornare a essere un cittadino legale. Il matrimonio non lo è! Ma capisco che sia l’unico modo per aiutarmi, e queste persone mi vogliono aiutare, è molto bello.”
L'attesa
Per ora quindi Hassan non può fare altro che aspettare, ingannando il tempo come può, con la speranza di non rimanere intrappolato tanto quando il protagonista di The terminal.
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