Citazioni di Tommaso Landolfi
Invero queste due ultime giornate sono inventate di sana pianta. D'altronde è appena necessario avvertirlo, né c'è lettore un po' fine che non se ne avvedrebbe. Beh, inventate non proprio tutte: da un certo limite assai arretrato in qua. Ma a quel lettore medesimo non sarebbe difficile, suppongo, situare quel limite colla sola analisi della scrittura. E come mai ho sentito il bisogno di scrivermi simili invenzioni, per giunta così poco originali? E che intendevo fare, gabellarle per cose vero, e soltanto ora ho cambiato idea? Ma ancora: si tratta appunto di invenzioni o non di immagini fedeli, anzi più vere del vero? A tutto ciò non so rispondere. Io devo ormai essere sincero: non so neppure materialmente, se queste siano invenzioni.
Sono anche stanco di questa mia scrittura, giacché stile non si vuol chiamare, falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata, e giù con tutte le altre falsità; possibile che io non sappia arrivare a una onesta umiltà e che le frasi mi nascano già tronfie dal cervello come Pallade armata dal... ecco che ci risiamo?
Eppure dovrò smettere presto: un libro è come una malattia, e solo chi ha forza da vendere si può permettere di scriverlo, a momenti dicevo di passarlo. Ammirevoli personaggi, quei tali che tiran su un romanzo in quattro volumi, giungendo fino a riscriverlo sette volte; non pure per la loro forza taurina e resistenza al caldo della febbre, ma perché, arrivati a metà, credono ancora a quello che stanno facendo, e ancora ci credono arrivati al terzo volume, e ancora a una pagina dalla fine del quarto, e ancora alla prima, seconda, settima riscrittura; credono addirittura alla utilità, di quello che stanno facendo. Questo si chiama comunemente "fiato", e par nome acconcio.
Ed ecco anche il massimo effetto che possono ormai sortire i miei conati di terza persona. Quasi la terza persona non fosse un'attitudine profonda dell'animo, ma una mera questione grammaticale. (È manifesto che col riportare questa ignobile prosa vo perseguendo ragioni tutt'altre dalle letterarie. Santo nome di Balzac qui sopra invocato! dove meglio tornerebbe al proposito un Ferenc o un Lajos.)
Quegli sparsi oggetti erano soltanto, ecco, protesi con cieco dolore a un loro irraggiungibile compimento, se è vero che orfanezza e vedovanza della patria celeste è la sorte di tutte le cose quaggiù.
Una materia che dominavo fin troppo, mi domina ora a sua volta, e il mio menomo scritto deriva, dalla penosa aspirazione a una umanità, verso la patologia pura e semplice.
Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?
Sarebbe necessario, doveroso interrompere questo scritto. Credo invece che lo continuerò; e spero a caso. O dovrei finalmente parlare? Troppo difficili e faticose son le cose che avrei da dire...
Poniamo, la mia ultima crisi. Di dove m'è venuta? Di molto lontano, naturalmente; tuttavia mi sembra quasi che potrei sorprenderla nella sua estrema maturazione, aiutandomi beninteso con immagini o ipotesi della realtà, non con dichiarazioni di essa. Dico che sempre io mi son voltolato e rivoltolato nella vita «come un ammalato smanioso nel suo letto»; anche mi somiglio a quelle farfalle notturne sorprese dalla luce o dall'agonia che rimangono a sbattere disperatamente le ali sui nostri pavimenti. Donde dunque, se questo è il mio stato naturale, la particolare e totale mancanza di forze, il vigile spavento?
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